Un “bes” per Antonio Ligabue, nato sbagliato

In Teatro

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La solitudine in scena dell’attore rispecchia la vita infelice di Antonio Ligabue, pittore naif sempre alla ricerca di quel bacio negato dalla madre

Vita di Toni, pelle di pesca, Laccabue, anche chiamato dalle sue parti (l’emiliana Gualtieri) «al Tedesch», per la sua infanzia in Svizzera, oppure «al Matt», per i suoi disturbi mentali. Fondamentalmente un artista e così viene ricordato: Antonio Ligabue, pittore. Un’esistenza, la sua, all’inseguimento di un bacio, all’insegna del desiderio di essere amato, di sentirsi uomo tra gli uomini e non solo tra le bestie, quelle che disegna con abilità e tra cui vive.

Mario Perrotta ha molti talenti: narra(t)tore eccellente, scrive, dirige, interpreta e con Un bes dimostra di saper anche disegnare. Dopo essersi dedicato negli anni a diversi progetti che lo hanno consacrato come uno dei nomi più interessanti del panorama teatrale italiano, dà vita a questo trittico su Ligabue che, dopo Un bes e Pitùr, si concluderà nel maggio 2015 con lo spettacolo-evento Bassa Continua.

Un bes è un monologo, una prova in solitario. La solitudine dell’attore sul palco ricalca infatti quella del pittore naïf nella vita: un’emarginazione fatta di miseria, di abbandono, di una carenza di affetto che alimenta le patologie psichiche e la difficoltà di interazione col mondo. L’arte, il disegno, la pittura diventano l’unica via di fuga possibile: sono, al contempo, sfogo e manifestazione dell’io, merce di scambio per sopravvivere e per avere attenzione, cambiale per evadere dai manicomi e per essere ricordato dopo la morte. Eppure nello spettacolo di Perrotta, una volta girate le tre tele in scena, ciò che appare sono finestre sbarrate: segno che per Ligabue l’arte è stata alternativa alla prigione dell’incomunicabilità ma anche, in quanto unica forma di espressione, esilio in un mondo separato, incomprensibile ai più, dove la vita vera è penetrata per riflesso e spesso in maniera dolorosa. Ecco allora che i soli interlocutori ammissibili sono i personaggi evocati dagli schizzi che mano a mano, nel suo raccontare, il narratore abbozza: sono fantasmi della memoria, amarcord da enumerare, flusso di coscienza in cui mettere ordine; e, ancora, pensieri su cui strusciarsi, verso cui inveire, da cui cercare riparo.

Si esce commossi. Partecipi del dramma di un uomo che ha sempre ritenuto di non essere nato giusto e ammaliati dalla premura con cui Perrotta lo racconta. Una sensibilità che è anche un’urgenza, una necessità che sembra capace di infrangere qualsiasi rinvio, perfino quell’amaro «la prossima volta» con cui la madre adottiva del pittore respingeva, ostinatamente, la richiesta più semplice: me lo dai un bacio?

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