Arriva in Italia per Einaudi uno dei romanzi d’esordio più acclamati degli ultimi anni, “Amori e disamori di Nathaniel P.”
La prima cosa che viene da chiedersi, prendendo in mano la copia di Amori e disamori di Nathaniel P. di Adelle Waldman, pubblicato a inizio mese da Einaudi, è perché si sia scelto di vestire uno degli esordi letterari più felicemente accolti negli ultimi anni con una fascetta da femminile commerciale: «Il romanzo che nessun fidanzato vorrebbe far leggere alla propria ragazza».
Questo è anche un po’ il tenore della sinossi, delle praise, di varie – in ogni caso entusiastiche – recensioni, e degli svariati tweet a sostegno del romanzo, tra cui quello di Lena Dunham, che presagisce plurime fughe verso il lesbismo come esito della lettura.
Senza nutrire particolari ostilità né per i romanzi di genere né per l’opera letteraria nell’epoca della sua (necessaria) commerciabilità, l’interrogativo da cui dipende ogni possibile giudizio sull’opera di Adelle Waldman sembra essere in fin dei conti questo: si tratta di un romanzo rosa, tanto astuto e raffinato da autorizzare le lodi spassionate delle élite mediatico-letterarie – sempre avide degli oggetti giusti per rivendicarsi pop – o c’è qualcosa in più, dice questo romanzo, e si può dire a suo riguardo, qualcosa in più?
La tentazione di fermarsi al primo livello di lettura è molta, tanto è apparecchiata la scenografia e ingombrante il tema sentimentale: c’è New York, ci sono dei trentenni svegli, tutto sommato in carriera – quella editoriale –, ci sono i brunch, le pareti in mattoni, l’emancipazione sessuale (simulata), la precarietà sentimentale (esibita), c’è la musica indie, il cinema indie, gli abiti vintage, la spesa vegana, una certa affabilità con l’alcol, le riviste letterarie, la politica internazionale. E poi c’è il protagonista, Nathaniel, trent’anni, università prestigiosa, un romanzo appena venduto, recensore free-lance, un monolocale a Brooklyn, un fascino non privo di difetti, un carattere volubile, un’intelligenza voluttuosa, una vita sentimentale incostante: uno stronzo con le donne.
Qui scatta la più scontata delle immedesimazioni: chi non ha mai conosciuto un tipo come Nathaniel? Chi non è mai stato un tipo come Nathaniel? E soprattutto, chi non ha mai provato a “salvare” un tipo come Nathaniel?
Ci prova Hannah, scrittrice in erba, affascinante, intelligente, “buona”. Se ci riesca o meno non è il caso di dirlo, costituendo questo il filo di suspense su cui si regge tutta la storia.
Se ci si vuole fermare a questa superficie in ogni caso affatto frivola delle cose, il romanzo ci scorre davanti senza inciampi o interrogativi più pesanti: si legge veloce, si gusta veloce, si vuole arrivare alla fine, sapere se Hannah salva Nathaniel, se l’amore trionfa, se “le mille luci di New York” splendono benevole sul destino intellettualmente elevato e consapevole di una giovane coppia perfettamente inserita nell’immaginario per cui è nata, fatto di librerie alle pareti, take-away etnici, calici di vino e conversazioni raffinate. Perfino i porno, in questo immaginario, sono riposizionati ideologicamente, l’emancipazione intellettuale che sublima l’esasperazione sessuale.
L’importante è dirsi capaci di giocare con tutto lo spettro delle pulsioni umane: se so cos’è, come si chiama e da quale dipartimento di quale università arriva l’ultimo saggio di gender studies sul tema, nulla può farmi più male, di nulla mi vergogno più.
È esattamente qui, però, che il romanzo riesce a slittare da una dimensione all’altra, aprendosi a un parallelo e più alto tipo di narrazione; qui che smette – se mai lo è stato – di essere un romanzo di genere, e diviene un romanzo “totale”: qui, dove e quando, si attiva il motore della vergogna.
Che si attivi o meno, certo non è scontato: può restare in folle fino alla fine, lasciando che prevalga come unico sentimento di immedesimazione l’indignazione verso il comportamento di Nathaniel. Allora il romanzo non scatterà mai, e rimarremo incastrati nella frase della fascetta, nel tweet della Dunham, nel libro di genere, e in tutte le storie amorose che l’industria culturale, da più di mezzo secolo, vuol farci associare a New York. In un certo senso, se il motore resta in folle, ce la godremo di più.
Ma se siamo disposti a vergognarci, allora inizia la meraviglia. La bravura, la maestria di Adelle Waldman nel costruire con impressionante definizione l’io narrante di Nathaniel e il contesto in cui si muove – attori, luoghi, azioni – sta nella scelta di evitare qualsiasi giudizio e qualsiasi tentazione di dirigere il suo personaggio su un percorso di formazione: non è un’educazione sentimentale questa, né c’è alcuna catarsi, siamo piuttosto in piena stagnazione morale.
Nathaniel è molto bravo nel giustificarsi e nel difendersi dalle accuse che rivolge a se stesso, da quelle che gli rivolgono gli altri, da quelle che gli rivolgiamo noi. Ma la nudità con cui entriamo a contatto, l’accesso totale alla meschinità del suo pensiero quotidiano – perché Nathaniel non fa nulla di grave, non ha colpe eclatanti – è un vero miracolo narrativo. La promiscuità del lettore con la codardia, l’autoindulgenza, l’umoralità, la cattiveria, la banalità con cui Nathaniel pensa le cose del mondo – una promiscuità contemporanea al loro stesso venir pensate – accende un livello di immedesimazione diverso, perché costringe il lettore alla stesso tipo di nudità, e al contempo lo obbliga a distogliere lo sguardo per il pudore di questo troppo vedere.
Il senso della vergogna si estende come un contagio da Nathaniel all’ambiente in cui si muove, fino a investire tutto quell’immaginario che non potevamo fare a meno di pensare perfetto fino a un istante fa: improvvisamente appare posticcio, artificioso, una sorta di pacchetto prêt-à-porter di usi e costumi per trentenni consapevoli. Si fa difficile, di nuovo, sfuggire a una forma di imbarazzo per la percezione di un coinvolgimento, per l’impossibilità di sentirsi assolti da questa minuziosa e iperralistica rappresentazione sociale in cui si annida un feroce atto di smascheramento. In questa nudità imbarazzante ciò che salva Nathaniel e salva il lettore è, paradossalmente, proprio il senso della vergogna, poiché si impone come unico, ancora possibile, senso del reale.
Da vicino, da dentro, siamo tutti più miseri, ma quest’opera di scavo, questo sguardo che indaga implacabile e racconta senza mai dichiararsi, senza mai elevarsi, è ciò che maggiormente assomiglia all’idea di verità cui non riusciamo a rinunciare, e ciò che ha fatto di questo romanzo di genere un romanzo da leggere.
Immagine: Chris Goldberg, Cubana Social Cafe – Williamsburg, Brooklyn