Vite straordinarie: i racconti di Luciano/Lucy da Dachau alle strade di Bologna

In Cinema

“C’è un soffio di vita soltanto”, terzo film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini è un’intervista-ritratto a un personaggio unico: la 96enne Lucy Salani, prima trans storica italiana, la cui permanenza nel lager di Hitler accresce un’esistenza ricca di eventi. Lei li racconta con verve, intelligenza: si commuove ai ricordi più drammatici ma mantiene sempre un tono lucido, vitale, anche divertente

Non è certamente un ritratto idealizzato, né molto connotato ideologicamente, quello della
storica, in molti sensi, trans bolognese Luciano/poi Lucy Salani, opera di Matteo Botrugno e
Daniele Coluccini nel film-intervista C’è un soffio di vita soltanto, che hanno scritto, diretto,
prodotto e musicato. Ha la sostanza del documentario ma un passo assai più immediato, ricco
com’è dell’esuberante umanità della transessuale più anziana d’Italia, una signora 96enne che
racconta una vita in molti momenti e per varie ragioni drammatica, ricostruita però da lei quasi
con leggerezza, come fosse un’esperienza tutto sommato non così straordinaria, di vita
quotidiana novecentesca e oltre. Invece lei è una delle pochissime sopravvissute alla
segregazione nel campo di sterminio nazista di Dachau, in cui fu rinchiusa per diserzione
dall’esercito nazista dov’era stata arruolata a forza dopo la fuga, sua e di migliaia di altri soldati
italiani, seguita alla resa dell’8 settembre e alle vicende dei mesi seguenti.

Passato al recente Torino Film Festival, C’è un soffio di vita soltanto è un racconto per parole e
immagini che non segue un rigoroso ordine cronologico nella biografia di Lucy: ha più una
struttura per temi ed eventi, che vengono sempre più approfonditi. Si racconta in primo luogo di
Lucy e della sua scelta di dare spazio a quella che sentiva come la sua vera natura, quella
femminile, trasformandosi poi anche fisicamente in donna, narrata con straordinario laicismo e
senza farne più di tanto una bandiera o una presa di posizione. Lei la presenta come la presa d’atto di una realtà fisica e psicologica, che ha scelto di assecondare perché, come dice spesso nel film, è la natura che ha scelto così, non sapeva decidersi all’inizio tra il maschio che ero fisicamente e la femmina che volevo essere. In un momento, scherzando ma non troppo, si definisce perfino “un intruglio”: ma non lo dice in senso spregiativo, piuttosto come mescolanza di elementi diversi, che poi ha scelto di trasformare in Lucy.

E anche la condizione di prostituta, che alternerà per molti anni a quella di attrice/soubrette in minuscoli ruoli di spettacoli di circo o varietà, e partendo della quale non tralascia particolari disturbanti, disgustosi, soprattutto sulla psicologia e l’atteggiamento di molti maschi incontrati, compare nel film quasi come una conseguenza di sciagurati incontri infantili: quand’era un maschietto, per esempio, un prete, invece di confessarlo, lo molestava, lo toccava, e in seguito altri uomini gli hanno richiesto, pagando, prestazioni sessuali. Ma quando riferiva questi fatti ai suoi genitori a casa, Luciano prendeva sonori schiaffoni, perché suscitava rifiuti, incredulità.

Tutte vicende drammatiche, ovviamente, come le violenze subite sulle strade la notte o il rigetto
della società di fronte alla diversità che incarnava: nel suo racconto, però, non raggiungono mai
l’asprezza, le lacrime, il coinvolgimento emotivo dei momenti in cui parla del lager dove ha
avuto la sciagurata sorte di trasportare i cadaveri delle vittime delle camere a gas, su carriole o
carri, verso i crematori che le avrebbero trasformate in cenere. Un obbligo orribile anche per il
carico di senso di colpa che come si può ben capire ha generato dentro di lei, che non aveva
alcuna colpa propria, e anzi ne ha molto sofferto. Nel gelo dell’inverno del 44-45, canta
Francesco Guccini, a Dachau e ad Auschwitz, “c’era la neve e il fumo saliva lento”. Il fumo dei
resti dei corpi di milioni di assassinati da Hitler.


Così C’è un soffio di vita soltanto diventa anche una forte e convincente riflessione sulla Storia
e sulla memoria, sul modo di raccontarla molti decenni dopo. Forte e convincente perché non
troppo gridata, né dai suoi autori né dalla sua protagonista, che ne restituisce tutto l’orrore
partendo dalla cronaca quotidiana (“Ci ho passato sei mesi. Speravo tanto che ci
bombardassero, per mettere fine a tutto questo. Non avevamo un nome, eravamo solo un
numero. Sono morta dentro, allora, dopo essere stata lì ed essere sopravvissuta” sono alcune
delle cose che Lucy dice nel film): senza minimizzare l’angoscia assoluta che questa narrazione
rimanda a chi guarda e ascolta, ma quasi accrescendola anzi con la forza terribile di una
mortale “normalità” che ha coinvolto molti milioni di persone.


Nonostante tutto questo, nel vedere e sentire i racconti di questa signora nata a Fossano e che
oggi vive a Bologna, Borgo Panigale, ed esce ancora di casa da sola per fare la spesa, e cucina
una frittata a Said, un amico marocchino 40enne che abita con lei e la aiuta, o riceve spesso, scherzando con loro, colleghe dei tempi andati un poco più giovani, si ha una sensazione di vitalità, intelligenza e
cuore, davvero di resilienza, per usare una parola inflazionata. Negli anni Settanta
Lucy si trasferisce a Torino, dove inizia a lavorare come tappezziere. È un periodo sereno e la
sua esistenza è arricchita da Patrizia, adolescente rimasta orfana che va a vivere nel suo
appartamento. Lei le insegna tutto, si comporta come una vera madre e ben presto sarà
chiamata “mamma”. Il loro rapporto continuerà fino alla morte prematura di Patrizia, nel 2014. Intorno alla metà degli anni Ottanta, Lucy decide di sottoporsi alla riattribuzione chirurgica di
sesso. Si opera a Londra. Torna in Italia ma rifiuta di cambiare nome: “Me lo hanno dato i miei
genitori, è sacro. Perché, una donna non si può chiamare Luciano? Perché no?” commenta
oggi con uno scatto ulteriore di autonomia, di personalità.

Botrugno e Coluccini sono al terzo film dopo Et in terra pax (2009), passato alla Mostra di
Venezia e ai festival di Tokyo e Mosca e Il contagio (2017) primo film tratto da un libro del
Premio Strega Walter Siti, con cui tornano in Laguna e procurano due candidature ai Nastri
d’Argento agli interpreti Vinicio Marchioni e Anna Foglietta. Il film sarà poi distribuito anche
negli Stati Uniti. Qui, con molta intelligenza, e girando non senza fatica già in piena pandemia
da Covid, ascoltano e registrano, stando davvero al di qua della cinepresa: magari stimolando il
racconto e le riflessioni, ma senza mai sovrapporsi, nè “rubare la scena” a Lucy. Che comunque
se la prende grazie alla sua simpatia, alla lucidità, e certamente in virtù della forza delle
esperienze che si porta dietro e sceglie di condividere coi due registi e gli spettatori, senza
compatirsi o fare di sé un’icona, un’eroina della sua tormentata epoca. Divoratrice di film di
fantascienza, affamata di notizie sull’esplorazione dello spazio, sull’universo, sulla vita in pianeti
diversi dal nostro, alla fine dichiara, tra il serio e il faceto, che non vale più la pena di
rimanere sulla Terra. Sarebbe meglio, secondo lei, trasferirsi su uno di quei mondi che
ha visto in un programma tv, o in un film su dvd. Forse ha perfino ragione.

C’è un soffio di vita soltanto, film-documento di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini con
Lucy Salani, Said Halssoussi, Porpora Marcasciano, Simone Cangelosi, Ambra Guarnieri

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