Una tata, una bambola e quel ragazzo misterioso

In Cinema

Gran parte della vicenda narrata da “The boy” obbedisce, almeno in superficie, ai dettami della casistica horror. Tuttavia la regia di Bell distribuisce i numerosi cliché in sequenze originali, a favore di un intreccio in ultima istanza non del tutto prevedibile.

A volte anche un’unica, impercettibile alterazione dei canoni stilistici di un genere cinematografico può risollevare la sorte di un soggetto. Così è andata, e piuttosto bene, a William Brent Bell e Stacey Menear, rispettivamente regista e sceneggiatrice dell’oscuro The Boy. In fuga da una relazione disastrosa, la giovane americana Greta (Lauren Cohan) approda in una villa di un paese di campagna inglese per farsi assunta come “tata” di un ragazzino di otto anni, Brahms. Al suo arrivo una coppia di eccentrici anziani (Jim Norton e Diana Hardcastle) la mettono di fronte a una bambola di porcellana, di cui la ragazza dovrà amorevolmente occuparsi secondo un decalogo di regole precise. L’assurdità della situazione convince Greta a trascurare lo strano pupazzo per assecondare, poco a poco, le attenzioni del simpatico Malcolm (Rupert Evans), il ragazzo che si occupa delle consegne nella casa. Ma qualcosa comincerà ben presto a non essere molto chiara.

Gran parte della vicenda obbedisce, almeno in superficie, ai dettami della casistica horror: le atmosfere inquietanti si alternano a brevissimi momenti distesi, tenuti insieme da intermezzi di suspence; i personaggi stessi rientrano in alcune tipologie classiche di questa categoria filmica, e persino la bambola protagonista rievoca altri fantocci già incontrati sullo schermo in contesti simili. Tuttavia la regia di Bell distribuisce i numerosi cliché in sequenze originali, a favore di un intreccio in ultima istanza non del tutto prevedibile.

Solo all’inizio si manifestano, infatti, veri sussulti di terrore, lasciando poi spazio, nel resto dell’opera, all’indagine sul mistero della bambola, e, su un altro piano, ai conflitti, ai rapporti, alle storie dei personaggi; dunque incuriosisce tanto lo sviluppo del ruolo di Greta, dal passato amoroso deludente al risveglio sentimentale con Malcolm, quanto la sua interazione col pupazzo di Brahms, che segue un percorso coerente. E, scelta questa direzione registica, il ritmo ne beneficia in termini di pacatezza e scorrimento, e gli elementi horror, raggruppati in una sorta di collage creativo, benché non del tutto lontani dalla struttura di partenza sono in grado di suscitare una reazione più autentica e convinta nel cuore dello spettatore. Tutto sembra condurre a una soluzione definitiva, ma una svolta inattesa spiegherà il reale svolgimento degli eventi narrati.

Nonostante la conclusione, a livello tecnico, non possa far a meno di riallacciarsi alla convenzione, The Boy resta ugualmente un buon tentativo di smontare la precostituita partitura del brivido cinematografico per riscriverla in un ordine inedito. Magari il lavoro di Bell e della Menear non produce un risultato rivoluzionario, ma certamente risveglia l’idea, possibile, di migliorare l’efficacia di un genere ormai troppo ripetitivo nei suoi contenuti. L’intenzione si percepisce sonora nel film, racchiusa nella profondità dello sguardo, indecifrabile, dipinto sul freddo volto di Brahms.

The Boy, di William Brent Bell, con Lauren Cohan, Jim Norton, Diana Hardcastle, Rupert Evans

Tiziano Bertrand

 

IL TRADITORE CHE VENNE DAL FREDDO, A MARRAKECH

Cosa spinge, uno nella braccia dell’altro, il distinto e avvenente professor Perry (Ewan McGregor), docente di poesia a Londra in crisi coniugale, e l’uomo d’affari russo Dima (Stellan Skarsgaard), simpatico ma non esattamente uno stinco di santo, anche secondo gli standard piuttosto elastici in voga oggi a Mosca e dintorni? I due s’incontrano una sera, per caso, davanti a più di una vodka, nel bar di un hotel a “n” stelle di Marrakech: ma dire che Il traditore tipo (traduzione infedele e sbagliata di Our Kind of Traitor), opera, dalle movenze stilistiche abbastanza tradizionali, della regista televisiva inglese Susanna White, dia una risposta alla domanda sarebbe troppo generoso.

L’oligarca affida al cattedratico, che non ha mai visto in vita sua ma di cui sente di potersi fidare (e poi, spiega nel corso del film, non c’era nessun altro disponibile quella sera in albergo!) tutti i segreti (in forma di chiavetta Usb!) di una vita da riciclatore n. 1 della mafia russa, più anche le prove della connivenza dei boss della sua “organizzazione” con i parigrado politici e militari ai vertici delle massime strutture di sicurezza del governo inglese. E ha pure fortuna, perché il luminare accetta follemente di impegnarsi in questa pericolosissima trama, e lo fa anche con qualche perizia e successo, grazie all’aiuto della splendida e intelligente moglie (Naomie Harris), avvocato di successo. E a una dose di fortuna che è il minimo definire incredibile.

Tratto da uno degli ultimi romanzi del grande John Le Carrè, che ha caricato il suo intrigo noir di significati etico-politici (l’irresistibile potere del denaro su tutto, governi compresi, il declino morale dei figli d’Inghilterra), una strizzata d’occhio all’Uomo che sapeva troppo di Hitchcock (il Marocco, l’indagine su scala coniugale) e una agli ultimi cupi 007 di location britanniche, Il traditore tipo fallisce però per voler essere un po’ troppe cose. Inadeguato e pretenzioso come crepuscolare pamphlet socio-politico, lento e inverosimile come film d’azione, dispersivo come storia di coppia, alla fine si regge soprattutto sulle professionali prove degli attori. Un po’ poco, con Le Carrè alle spalle.

Il traditore tipo, di Susanna White, con Ewan McGregor, Stellan Skarsgård, Damian Lewis, Naomie Harris, Jeremy Northam

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