Stasera con noi (3): lontano, nel Midwest

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Stanchi di virologi, tamponi, numeri e infiniti talk show? Le sere del lockdown possono portarvi altrove: nel Midwest per esempio, guida d’eccezione Don Robertson e la sua epica americana

L’altra sera sono stato nel Midwest, molto frequentato in film western di immensi ricordi, fiumi e panorami bianchi e neri riflessi nel pulviscolo in penombra delle sale anni ’50. Sono, controllati, 11 stati americani, quelli in cui Trump continua a far ricontare le schede, che cinema e letteratura hanno più volte eletto luoghi del cuore (a cominciare dal grande Thomas Wolfe di Angelo guarda il passato), ed ho scoperto, con grave ritardo, che si possono leggere e gustare sulla pagina anche i western e vedere i panorami come fossero cinemascope. Parliamo di Paradiso (anche Inferno), perché qui da me è in casa ospite da qualche settimana Don Robertson, magnifico scrittore epico made in Usa che di più non si può.

Fra i suoi titoli capolavoro c’è proprio un dittico, Paradise falls. Il Paradiso e Paradise falls. L’inferno, come Dante ma senza purgatorio, ma con repubblicani e democratici già ai loro posti, l’idea molto americana della piccola città in cui si racchiude il mondo e una comparsata anche degli Amish. In questo grande western etico che sembra pensato con la cintura di castità morale di un Ingmar Bergman, ci sono già le basi della storia a stelle e strisce non solo dalla guerra civile ai primi del ‘900 e poi oltre, ma anche quella di oggi che Robertson – morto 70enne nel 1999 (il 21 marzo, giorno del suo compleanno) dopo un periodo breve di fama (con premio Pulitzer e il primo infarto) e lungo di dimenticanza – non ha fatto in tempo a gustare ma aveva prevista. Questi romanzi sono tradotti per la prima volta in Italia per Nutrimenti da un esperto di “topoi” e letteratura a stelle e strisce come Nicola Manuppelli, che sta sviluppando l’opera omnia di Robertson, da lui chiamato il Raffaello dell’Ohio, in cui ci sono in primo piano i peccati mortali del grande capitalismo (miniere, ferrovie), il primo medium tipico (il giornale), ma anche gli imbrogli, le corruzioni, i piccoli e grandi scandali, i bordelli, le chiese. Gli incendi, i tranelli, la natura, probabilità e imprevisti, con un finale davvero da cinema.

I volumi di Robertson sono un treno senza fermate che ci porta direttamente al presente senza passare dal via: guerra e pace, un’Arcadia a forma di Ohio, come nei racconti di Sherwood Anderson, con molte sfide senza confini etici tra uomini che si contendono il Potere, gli Underwood e i Wells. E poi il luogo, Paradise Falls, e anche alcuni personaggi che si rincorrono nei romanzi, alla maniera di Balzac, di questo fluviale scrittore da scoprire, in cui storia e geografia vivono per sempre insieme (in)felici e contenti. Il Midwest sta bene in casa, dimenticando gli schermi di ieri: se apri Netflix tornano i gialli panorami dell’Ohio in Elegia americana (anche qui alla base c’è un romanzo familiare di Vance) dove il protagonista vuol fuggire verso Yale, lasciando mamme e nonne immerse nei loro problemi spesso trasformati in peccati mortali. Se il film di Howard, ex teen star di “Happy days”, non è memorabile, Amy Adams è strepitosa e Glenn Close, dopo 7 nomination, potrebbe finalmente vincere l’Oscar con un film in cui pare più vecchia di quanto realmente non sia, espediente che ha sempre portato bene.

Il Midwest, quello del Grande cielo (romanzo di A.B. Guthrie) in Missouri con i cacciatori di castori e gli indiani lungo 3000 km di fiume, momento felice di Hawks con Kirk Douglas, ci rende le serate più vivibili, dopo gli infiniti tamponi, le provette dei tiggì e i virologi in talk show. Forse si ama il Midwest con i suoi famosissimi stati dell’unione perché in realtà siamo cresciuti fra romanzi nuovayorkesi di Roth e Dreiser, Malamud e Singer, Miller e Yates e tantissimi altri. Ma tutto cambia e lo stesso Midwest, per esempio il Wyoming, e per esempio Laramie, che era ridente location di un film col buon James Stewart dall’occhio azzurro, si ripresenta in altra veste: oggi è la meno ridente e molto sconvolta cittadina dove un ragazzo gay è stato torturato e ucciso due decenni fa solo per gusto omofobo, da cui Moisés Kaufman ha tratto un dramma a più voci di commovente successo. Se la pandemia ci farà riaprire i teatri, che sono più importanti dello shopping anche se muovono meno danaro, vedremo questo tremendo racconto in uno spettacolo dell’Elfo che dovrebbe andare in scena il 5 febbraio.

Per essere più pacifici e tolleranti ascoltiamo invece in The crown (la quarta serie, quella cattivella in cui i nodi vengono al pettine), la regina Elisabetta che spiega alla sorella Margaret come un suo amico non sia adatto a lei semplicemente perché gay. E usa un delizioso girotondo di parole diventato slang cinefilo: He is Dorothy’s friend, un amico di Dorothy, la Dorothy del Mago di Oz, cioè la sempre rimpianta ed infelice Judy Garland, che nel film del ’39 (l’annata ricca per il cinema americano a partire da Via col vento), era ancora una ragazzina tenuta a dieta dalla MGM, ma crescendo diventò famosa icona gay.

Foto di apertura: Sydney Rae/unsplash

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