La scommessa del presente attraverso Camus

In Teatro

FOTO © BRAMBILLA SERRANI

Serena Sinigaglia porta in scena – al Teatro Carcano fino al 27 marzo – la Peste di Camus. Un lavoro che inevitabilmente parla di oggi, ma senza banalizzare

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Poche sfide sono provanti come raccontare qualcosa – e farne metafora – mentre lo si sta ancora vivendo. Serena Sinigaglia – con l’ausilio della penna già molto esperta di Emanuele Aldrovandi si è assunta un compito improbo, scegliendo di portare in scena nientemeno che la Peste di Camus in un tempo ancora pandemico (non già endemico).

Ciò che lo rende complicato, però non è confrontarsi con la consapevolezza il virus e la malattia facciano ancora parte del nostro quotidiano. Che i morti che aumentano, le città chiuse, i ritardi delle istituzioni, sono memoria viva e prossima, e la tensione ci condiziona. (i colpi di tosse in platea, ad esempio, non riusciamo più ad avvertirli come un corollario abituale della fruizione di uno spettacolo.

Si avvertono moltiplicati, e serve ancora un tempo in più per ricordare che sul palco c’è una macchina del fumo). La grande fatica che solo una regista della statura di Sinigaglia poteva avere l’ambizione e la forza di affrontare era spogliarci dal senso di angoscia. Dal disagio e dall’incertezza, dalla fragilità – morale, psichica, ancor più che fisica – che gli ultimi due anni ci hanno lasciato in sorte.

E, insieme, scansare la retorica orrendamente stucchevole degli “andrà tutto bene”, del “ne usciremo migliori”. Smettere di farci sentire dentro una parentesi di incubo da cui, prima o poi, ci sveglieremo. In questo senso, ha vinto la sfida. L’ha vinta lei e l’ha vinta Camus, che ambientò il nostro presente nell’Algeria degli anni quaranta non già per farne un melo a sfondo sanitario ma per raccontare la fragilità degli esseri umani e dei loro legami, ma anche l’inevitabilità di essere cambiati dall’imprevisto.

Si parla di peste e si pensa l’angoscia, si pensa il dolore, la morte, l’abbandono. Lo sforzo, quasi spasmodico, della messa in scena che ha debuttato al Teatro Carcano è invece cercarne la luce. Lo suggeriscono gli abiti sui toni chiari di Katarina Vukcevic, le luci potenti come solo certo sole d’Algeria, Ma la scena di Maria Spazzi e i suoi sacchi di sabbia che la ingombrano suggeriscono l’altra faccia della consapevolezza. Siamo in una trincea, Molto lontane, però, dalla retorica belligerante stonata e fuori centro che questi due anni ci hanno costretto ad abitare.

Quella portata in scena da questa Peste non è la battaglia contro il nemico invisibile, è la fatica di chi costruisce un nuovo presente che possa guardare al futuro. Si sta, indiscutibilmente, soffrendo. Per ogni centimetro conquistato si paga un prezzo inestimabile di strazio e inaccettabilità. E dentro qualcosa di così più grande di noi non c’è spazio per gli eroi, (“non sono portato, credo, pe l’eroismo. Essere semplicemente un uomo, questo mi interessa”) ma solo per quel po’ di amore, umanissimo e tutto terreno, che ci avvicina gli uni agli altri. Che ci permette, per un istante, di prendere fiato. Di sapere che forse, molti di noi, come Mosè non vedranno la terra che sta oltre il deserto, ma che camminando insieme si può intravvederla, a patto di non considerarla quella del latte e del miele.

Di là c’è soltanto l’uomo, ci siamo noi, c’è l’agire insieme per continuare a vivere. C’è l’amore, quello sognato, che ha paura di scoprirsi mutato e perduto. C’è l’assenza di una spiegazione, un’urgenza di senso destinata e restare inappagata se si guarda a un dio, ma non se si allunga lo sguardo verso l’uomo che ci sta accanto stravolto dalla fatica e riverso sulla juta. La messa in scena riduce il testo di Camus a cinque personaggi, cinque archetipi, più un misuratissimo corollario di figure a servizio. Cinque validi interpreti, che ricostruiscono un gruppo di lavoro rodatissimo. Alvise Camozzi, Mattia Fabris, Oscar De Summa, Matteo Camon e Marco Brinzi sono Rieux, Il medico, Tarrou, l’uomo di mondo, Cottard, il contrabbandiere, Grand l’impiegato e Rambert, il giornalista.  In quegli uomini ci sono le nostre contraddizioni: c’è chi ha trovato, nell’incubo degli altri un proprio fragile spazio di felicità, c’è chi sa mettere da parte se stesso (ma lo fa poi davvero?) per pensare collettivo, c’è chi si aggrappa al proprio scampolo di desiderio e chi cede. C’è l’uomo, fuor di giudizio e semplificazione. 

E la “normalità” o presunta tale, quando arriva lo coglie disorientato. Come siamo, che lo ammettiamo o no, noi oggi. E se era difficile rendere tutto questo, ancora di più lo era farlo con soluzioni sceniche felici. Se alcune idee sono visivamente d’impatto, (la vita che scivola via come sabbia che si sgrana a terra), molto sembra cristallizzato in una grande stasi generale, come la mancanza di un orizzonte preciso costringesse i protagonisti a stare nel proprio qui e ora.

Il testo, poi, lascia spesso e volentieri spazio alla descrizione e al pensiero verbalizzato, quasi didascalie espresse che non di rado sovrappongono il testo di Camus al lavoro (coraggioso) di Aldrovandi come se il testo bastasse a se stesso, o non potesse essere eluso, trasformato o reso più scarno. Un lavoro, insomma, che è una scommessa. Sta allo spettatore decidere se è stata vinta. Di certo ci mette di fronte a noi stessi senza cercare la consolazione accomodante, ma non rinunciando – insiste la regista – a fare emergere l’utilità di un testo così “pieno di luce”. E di quella, certo, ne abbiamo un gran bisogno.

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