Go.Go.Sokurov…

In Teatro

Il maestro del cinema Sokurov debutta sulla scena ispirandosi a Iosif Brodskij. Il ritmo, però, è fiacco…

Sul suo letto di morte, pare che Susan Sontag abbia parlato soltanto di due persone: sua madre e il poeta Iosif Brodskij, amico, amante e… Lo racconta il figlio David Rieff, che mi immagino assisterla proprio come in uno dei lunghissimi, laceranti piani-sequenza di Madre e figlio di Aleksandr Sokurov. Secondo Rieff sua madre ebbe un rapporto sentimentale alla pari soltanto con questo emigrato russo. Tanto che nei suoi diari la Sontag riporta alcuni dogmi di Brodskij che, dice, l’avrebbero folgorata. Come: «La censura può essere un bene per uno scrittore perché sviluppa il potere metaforico del suo linguaggio».

E non a caso la metafora, l’allusione, il miraggio – anche sottotitolo dello spettacolo – sono gli impalpabili ingredienti della prima incursione teatrale di Sokurov, regista russo vincitore a Venezia del Leone d’oro nel 2011 con un Faust distorto e materico, ora invece – e fino al 30 ottobre – al CRT con Go. Go. Go, già andato in scena all’Olimpico di Vicenza e tratto appunto da Brodskij.

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«Chìnati, Ti devo sussurrare all’orecchio qualcosa». Ecco un verso di questo esule di Leningrado, che apre così una delle sue Elegie romane, scritte quando era già negli Stati Uniti dalla sua amica Sontag. E Sokurov sembra rivolgere lo stesso invito al pubblico, dopo essere migrato dal set al palco, dall’impressione su pellicola alla finzione in scena.

Resta però poco, pochissimo di Marmi, uno degli unici testi teatrali di Brodskij da cui Sokurov è partito, sorta di monologo-dialogo palleggiato tra due prigionieri che sarebbero rinchiusi in una torre vertiginosa, qui trasformata dalla mano esperta di Margherita Palli in una piazza italiana immersa nella nebbia. Un sacco di gente – addirittura una sessantina a Vicenza, di meno a Milano – si accalca sulle panche per guardare Roma di Fellini, come in un cinema all’aperto, con il film sovrapposto a una proiezione fissa dei grandiosi interni dell’Olimpico di Vicenza. Sembra marmo, invece il Palladio usò materiali poveri: legno, stucco e gesso.

La messinscena sembra una graduale metamorfosi dal 2D al 3D, dalle immagini proiettate agli ologrammi che si aggirano sul palco: attori fuori fuoco avvolti dallo smog polveroso che invade la scena. Proprio la tridimensionalizzazione è l’aspetto che più ha interessato Sokurov, questo è evidente. Il regista modula così tutto lo spettacolo con continui giochi primo piano-sfondo. Peccato però per l’amplificazione, che appiattisce qualsiasi intonazione e lontananza mettendo tutti gli attori sullo stesso livello, sulla stessa scala.

Ma in effetti è il ritmo troppo fiacco il principale difetto dello spettacolo, non tanto per lo stravolgimento del testo quanto per la debolezza della drammaturgia, che si appoggia più che altro su suggestioni estetiche e vaghi desideri di omaggio al cinema italiano. A questo proposito comunicano pochissimo – ed è quasi uno shock – sia Fellini sia la Magnani, presenti in scena più come cliché o deboli imitazioni da varietà. Per carità, sono errori più di regia che di recitazione, che però è in generale così così. Peccato perché certe situazioni affascinano ma restano solo abbozzi non sviluppati, come i baciamano e le moine alla statua pagana che si tramuta poi in macabra trappola per i topi-attori Tullio e Publio, per settanta minuti in metafisica querelle tra godimento del corpo e piaceri dell’intelletto.

Molti i problemi tecnici di amplificazione durante la serata – contrappasso? -, ma resta discutibile che i protagonisti Max Malatesta e Michelangelo Dalisi non siano usciti a ringraziare e salutare il pubblico innocente.

 

Go. Go. Go, regia di Aleksandr Sokurov, liberamente ispirato a Marmi ed altri testi di Iosif Brodskij, al CRT fino al 30 ottobre 

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