Cantala ancora Bob. Considerazioni a margine del “nuovo” Dylan

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A 75 anni appena compiuti, il grande giovane-vecchio della canzone americana torna in pista più arzillo e in forma che mai col nuovo album “Fallen angels”

Ascolto i primi versi del nuovo album di Bob Dylan, Fallen angels, il suo trentasettesimo di studio, e sulle prime non mi viene in mente Frank Sinatra. «Le fiabe possono avverarsi, può accadere anche a te, se hai un cuore giovane. Perché è difficile, vedrai, essere di vedute corte se hai il cuore giovane». Young at heart: il vecchio Frank la incise nel 1953 quando spasimava per Ava Gardner, una decina d’anni fa ne ha offerto un’altra cover superlativa Tom Waits nell’album Orphans.

Il cuore giovane, in questo vecchio vagabondo che non ha atteso i 75 anni, li ha compiuti lo scorso 25 maggio, per cantare come nessun altro la vecchiaia che incede con il suo carico di rimpianti e i suoi bilanci amari (“Quando credi di aver perso tutto, scopri che c’è ancora qualcosa da perdere, proseguo per la mia strada ma sto male, sto cercando di arrivare in paradiso prima che chiudano la porta”, Trying to get to heaven, uno dei suoi tardi capolavori) è un’esplorazione incessante, come il suo Never Ending Tour avviato nel 1988 che, contabilità aggiornata al 2014, ha raggiunto i 2600 concerti.

La gioventù come stato mentale, come cantava nella stupenda Forever young dedicata nel 1974 a uno dei figli: «Dio ti benedica e ti conservi, possano i tuoi desideri avverarsi (“come true”, come le fiabe di Young at heart e i sogni di Over the rainbow), possa tu essere sempre d’aiuto agli altri e lasciare che gli altri lo siano a te, possa tu crescere giusto e sincero, conoscere il vero e vedere la luce attorno a te, essere coraggioso, coscienzioso e forte, con le mani sempre all’opera e i piedi sempre in moto, possa tu avere fondamenta solide quando i venti del cambiamento soffiano, possa tu restare per sempre giovane».

Lo vedete, il vecchio Frank c’entra qualcosa, assieme alle benedizioni bibliche e a John Keats (“Forever young” è in uno dei versi dell’Ode a un’urna greca). E c’entrano qualcosa anche le fondamenta solide quando le cose cambiano. Perché Bob Dylan, nato come erede di Woody Guthrie e affermatosi come reinventore del folk e della protest song nei primi ’60, alfiere di un rock per la prima volta, con lui, adulto, nel corso di tutta la parabola artistica (è passato più di mezzo secolo dal suo esordio nel 1962) si è reinventato di continuo, con la testarda volontà di non farsi ingabbiare, di andare “in direzione ostinata e contraria”, di non essere uguale a se stesso. Di non scrivere, di non cantare quel che da lui ci si sarebbe aspettato.

Nel “vento del cambiamento” le fondamenta solide sono state l’esplorazione costante della tradizione blues e country, nelle sue canzoni e nelle riletture del grande lascito americano (World gone wrong e Good as I been to you), azzardando incursioni nel quasi jazz (If dogs run free), nel tex-mex (Romance in Durango), nello spiritual di venature caraibiche (Precious memories) e nel gospel (la trilogia Slow train coming, Saved e Shot of love).

Da due anni l’esplorazione continua affrontando il “great American songbook”, quello dei Gershwin, di Irving Berlin, di Rodgers e Hart, di Johnny Mercer, di Harold Arlen e dei mille altri autori cantati da Bing Crosby ed Ella Fitzgerald, da Billie Holiday e Tony Bennett. Dai grandi interpreti jazz e pop di quello scrigno di standard che fu Tin Pan Alley. Tradizione anche questa, né più né meno del blues, del country e del primo rock (Dylan ha eseguito, come più tardi avrebbe fatto Springsteen, anche Can’t help falling in love di Elvis Presley), grande lascito del ‘900 americano.

Per fare i conti con questo patrimonio, Dylan ha scelto di misurarsi, salvo rare eccezioni (in questo Fallen angels è Skylark del 1941, parole di Johnny Mercer che le scrisse pensando a Judy Garland della quale era innamorato, musica di Hoagy Carmichael, quello di Stardust e Georgia on my mind), con il canzoniere di Frank Sinatra, il Grande Cantante Americano. E dopo Shadows in the night del 2015, che lo vedeva intonare per la sorpresa dei fedelissimi standard come Autumn leaves (Les feuilles mortes di Kosma e Prévert) e Some enchanted evening, è ora arrivato il secondo capitolo. Dodici canzoni rispettose degli originali (soltanto nell’esotico-hollywoodiana On a little street in Singapore c’è una piccola manomissione della melodia, assai simile alle riletture che Dylan ha spesso offerto dal vivo dei suoi brani più celebri) ma, in qualche modo, sottilmente eversive.

Autumn leaves (Bob Dylan)

Fate un esperimento, provate a confrontare il mainstream corrente, i lustrini a volte un po’ kitsch di Rod Stewart e Barry Manilow, di Celine Dion e Barbra Streisand (ma anche le più sofisticate e artificiose versioni jazzy di Diana Krall) quando rifanno i classici, con queste messe a punto scarne e notturne, abitate da una quieta malinconia e da un sottile rimpianto, che portano gli spartiti di Tin Pan Alley in un vecchio folk club del Greenwich Village, oppure le caricano su un Greyhound e le fanno sbarcare in una bettola del Sud. Una tradizione reinventata, che si apparenta alla larga con il blues e il country. Meglio ancora, che immagina un ‘900 mitico né più né meno come, dalle nostre parti, fa Paolo Conte.

Merito dei suoi musicisti degli ultimi venti e passa anni, che avvolgono la musica in uno swing spoglio e discreto: il chitarrista texano Charlie Sexton, anche talentuoso rocker in proprio; il bassista e grande sessionman Tony Garnier e il batterista George Recile, di New Orleans; il bravissimo alt-country Donnie Herron alla steel guitar e alla viola; gli altri chitarristi Dean Parks e Stu Kimball. E merito della voce usurata dal tempo del vecchio Bob, duttile e carezzevole, capace di fare riemergere la “verità” esistenziale di quelle vecchie lyrics.

Così, ci si lasci prendere dall’amante abbandonato che abita l’assenza sperando di trovare lei (Maybe you’ll be there del 1947, la si confronti con Standing at the doorway dello stesso Dylan, affine per tematica), si sorrida davanti alla grazie ingenua di un primo ballo (Polka dots and moonbeams del 1940, primo hit del giovane Sinatra), si presti ascolto alla dialettica fra il possibilista (Nevertheless del 1931, la lanciò Bing Crosby) e l’oltranzista (All or nothing at all del 1939, grande standard jazz: l’hanno fatta anche Chet Baker, John Coltrane e Sarah Vaughan) o ci si lasci conquistare dalla perfetta canzone d’amore (All the way del 1957, forse la prova migliore dell’album), il gioco della seduzione scatta puntuale. E mantiene salda la sua presa anche con classici come It had to be you (del 1924, la cantava Dooley Wilson in Casablanca e la riproponeva Harry, ti presento Sally), That old black magic (1942, incisa per la prima volta da Glenn Miller, un’altra canzone d’amore di Johnny Mercer per la Garland) e Come rain or come shine (1946, cavallo di battaglia di Ray Charles e Marlene Dietrich, Billie Holiday e James Brown, Eric Clapton e B. B. King).

All the way (Bob Dylan)

All the way (Frank Sinatra)

Un’altra dimensione di Bob Dylan, “another side” per citare il titolo di un suo vecchio album? Neanche poi tanto, se si ricorda che sotto la scorza ruvida del rocker ammalato di blues un cuore nascosto da crooner è periodicamente affiorato. Con i gorgheggi country di Nashville skyline nel 1969 (penso a Peggy day e Tonight I’ll be staying here with you), con la versione di Blue moon del 1970, con più d’un pezzo della produzione recente: per esempio Moonlight del 2001 (lo potete ascoltare eseguito da Maria Muldaur), Spirit on the water del 2006 e Life is hard del 2009.

Blue moon (Bob Dylan)

Fallen angels, per parafrasare il titolo di un altro album celeberrimo del nostro, “brings it all back home”, riporta tutto a casa. Provate a fare il confronto con una canzone del 1939, Melancholy mood, che fu la seconda incisa dal giovanissimo Sinatra (era il lato B di All or nothing at all) con la sontuosa orchestra di Harry James, una delle migliori dell’era dello swing. Bene, la smagliante versione di Sinatra non regge il confronto con quella più dimessa e dolente di Bob Dylan. In questo album, Melancholy mood è diventata una delle sue canzoni del rimpianto e della perdita: “No consolation, all I can see is grief and gloom”. Come noi, nei giorni e nelle ore sbagliate.

Melancholy mood (Bob Dylan)

Melancholy mood (Frank Sinatra)

Bob Dylan Fallen Angels (Columbia)

 

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