La storia di un uomo che cerca l’immortalità, la storia di un libro che è tanti libri, la storia di una dea che richiede la continenza nei rapporti tra uomo e natura: Gilgamesh, la Bibbia, Jungle Nama. Le parole del tempo della fondazione del mondo in tre pubblicazioni di Adelphi, JacaBook e Neri Pozza. Mai pensato di regalare un poema per Natale? Di questi si parla, a occhio, da cinquemila anni. E un motivo ci sarà…
Gilgamesh, a cura di Andrew George (Adelphi)
Appena è comparso nelle prime traduzioni moderne, circa un secolo fa, il poema di Gilgamesh ha suscitato un enorme entusiasmo.
Rainer Maria Rilke ne raccontava la storia a tutti e nel 1916 scriveva: “Gilgamesh è immenso… È l’epopea della paura della morte”.
Molto prima che Ulisse, Teseo, Eracle e Orfeo tentassero la loro discesa nell’Ade, prima ancora che Iside rimettesse insieme i pezzi del suo Osiride per permettergli una nuova vita nell’Oltretomba, il giovane eroe forte del mondo sumerico, campione di fortuna, bellezza e amicizia si trova a dover fare i conti con il capriccio degli dei.
Dopo aver compiuto straordinarie imprese insieme all’amico (e prima rivale) Enkidu, è proprio una prova di forza di troppo a rendere la coppia invisa agli immortali, che fanno morire Enkidu e precipitano nella disperazione Gilgamesh.
Le proverà tutte, il re di Uruk, per riportare indietro l’amico: arriverà fino alla fine del mondo, implorando all’ultimo sopravvissuto al Diluvio Universale, il vecchissimo Utnapishtim, di rivelargli il segreto dell’immortalità.
Ma a nulla varranno le imprese gloriose e la sua fama: tornerà indietro accompagnato da ben più penose compagnie: l’ansia, la paura sono infatti sempre in agguato, poiché al proprio destino di esseri finiti non è concesso di scampare.
L’epopea dell’uomo forte è insieme un percorso iniziatico, il ‘cammino verso la saggezza’ attraverso successi e fallimenti e innumeri sono le volte in cui Gilgamesh si smarrisce o, peggio, prende deliberatamente la strada sbagliata.
Ma nelle sue possibili letture, si tratta anche di un poema didascalico, che parla anche dei doveri della regalità, di quello che un re deve o non deve fare, delle responsabilità dell’uomo verso la sua famiglia.
C’è una forza primigenia nelle sue avventure: Gilgamesh è stato il primo a scavare oasi nel deserto, il primo ad abbattere i cedri del Monte Libano, il primo a scoprire le tecniche dell’uccisione di tori selvatici, della navigazione.
Le sue avventure hanno ammaliato molti intellettuali dopo Rilke, che hanno rielaborato le sue imprese in drammi, romanzi e due opere liriche (tra cui questa, di Franco Battiato).
Oggi abbiamo decine di traduzioni del poema in almeno sedici lingue e ogni anno se ne aggiungono almeno un paio.
Perché così tante, e a che scopo questa nuova edizione pubblicata da Adelphi a cura di Andrew George?
Certo ogni grande capolavoro suscita la voglia di confrontarsi con lui, di svelarne i misteri. Pensiamo alle continue traduzioni di Omero, Euripide, Shakespeare, Voltaire, Goethe.
Ma quel che differenzia il poema di Gilgamesh dalle altre opere dell’antica letteratura mesopotamica è che si continua a trovarne nuove versioni e quindi si colmano le lacune e si aggiungono nuovi elementi. La scoperta è emozionante.
Settant’anni fa possedevamo meno di quaranta fonti su cui ricostruire il testo, e la storia presentava vaste lacune. Oggi ne abbiamo il doppio e i ritrovamenti di tavolette in cuneiforme, in sumerico, accadico e ittita continuano: il poema, in questo modo, diventa sempre più completo e più avvincente.
L’eroe e le sue vicende assumono più spessore.
Le testimonianze letterarie che narrano la storia di Gilgamesh ci arrivano da diversi periodi e sono state scritte in diverse lingue.
Fu il più famoso re di Babilonia, Hammurabi (1792 – 1750 a.C.) a ordinare agli scribi di ricopiare gli antichi testi sumerici.
Anche Assurbanipal istituì una grandiosa biblioteca che fu rasa al suolo nel 612 a. C. durante il sacco di Ninive: le preziose tavolette finirono in pezzi sui pavimenti, dove rimasero sepolte per duemilacinquecento anni. Paradossalmente, proprio dalla distruzione della biblioteca reale di Assurbanipal recuperiamo il tesoro delle tavolette con gli antichi poemi; il primo grande ritrovamento di tavolette cuneiformi a essere portato alla luce fu nel 1850: ad oggi il recupero (insieme alle nostre conoscenze) non è ancora terminato.
Stefano Arduini, Traduzioni in cerca di un originale- La Bibbia e i suoi traduttori (JacaBook)
‘L’originale è infedele alla traduzione’ scriveva in uno dei suoi fulminanti paradossi Jorge Louis Borges.
Ed è un buon punto di partenza per addentrarsi nelle pagine di Traduzioni in cerca di un originale-La Bibbia e i suoi traduttori, con le quali Stefano Arduini non intende scrivere l’ennesima introduzione alla Bibbia, ma ci accompagna in un tortuoso, labirintico percorso che ripercorre i passaggi attraverso i quali, tra scritture, riscritture, leggende, traduzioni, la Bibbia è diventata quel grande codice della letteratura occidentale che è infine approdato fino a noi.
Che libro è dunque la Bibbia? A quando risale la sua redazione e qual è il testo che ci è stato trasmesso fino a oggi, chi ne sono gli autori?
Già il suo nome è frutto di un passaggio culturale: il termine tà biblía è greco, ma si riferisce alla bibbia ebraica, la Tanakh, acronimo nato dalle iniziali cioè dei primi cinque libri (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deutoronomio).
Col termine Antico Testamento, si segue invece il canone alessandrino, adottato dalla chiesa cattolica e da quelle ortodosse.
San Girolamo la definisce la biblioteca divina: questa biblioteca non è la stessa per tutte le comunità che hanno ritenuto questi rotoli sacri, e nel corso del tempo si sono costituiti diversi canoni.
Quello che nella tradizione cristiana viene chiamato Antico Testamento è dunque una biblioteca sviluppata nel corso di mille anni, epoche storiche e politiche diverse: scritta, trascritta e riscritta da diversi autori, con diverse tipologie testuali e in lingue diverse.
Non a caso, riassumendone il contenuto in una paradossale scheda editoriale, in Diario Minimo Umberto Eco scrive così della Bibbia:
‘…andando avanti mi sono accorto che si tratta invece di una antologia di vari autori, con molti, troppi, brani di poesia, alcuni francamente lamentevoli e noiosi, vere e proprie geremiadi senza né capo né coda. Ne viene fuori così un omnibus mostruoso, che rischia di non piacere a nessuno perché c’è di tutto.’
Non sappiamo chi siano gli autori della Bibbia: figure storiche si mescolano a figure leggendarie, nomi reali a pseudonimi, fatti e luoghi reali si sovrappongono a visioni profetiche, documenti inconfutabili vengono interpretati e manipolati fino a snaturarsi.
Capiamo però che quel che ha tenuto vive, e tiene ancora vive, quelle pagine sono stati i suoi destinatari che le hanno lette, interpretate e tradotte senza sosta per millenni.
Amitav Gosh, Jungle Nama (Neri Pozza)
Jungle Nama è la rilettura di Amitav Gosh di una leggenda delle Sundarban, la più grande foresta di mangrovie del mondo.
La leggenda è molto popolare e viene ancora portata in scena dalle compagnie girovaghe nei villaggi del Sundarban. Grandi e piccoli ne restano incantati anche grazie alla sua musicalità.
Il poema epico da cui è tratto è composto in una metrica bengali conosciuta come dwipodi-poyar, ‘ verso a due piedi’.
Questo metro, che consiste in distici in rima, è usato fin dai tempi più remoti sia nella letteratura popolare che in classici quali il Mahabharata.
Sono versi pensati per essere salmodiati, cantati e letti ad alta voce.
La leggenda di Jungle Nama racconta di un crudele demone, Dokkhin Rai, che regna sulla foresta e terrorizza gli uomini e gli animali che osano avventurarvisi: il suo avatar di tigre li dilania, strappando loro gambe e braccia e le appende ai rami delle mangrovie.
I lamenti e le suppliche delle vittime di tanta crudeltà volano in cielo oltre i mari e i deserti fino in Arabia e richiamano in loro aiuto due divinità: Bon Bibi, la signora della Foresta, potente e misericordiosa, e Shah Jongoli, guerriero di energia mostruosa.
Dopo epiche e violente battaglie, le due divinità sconfiggono gli spettri e i demoni scatenati contro di loro dal terribile Dokkhin Rai, che viene confinato nella foresta, mentre agli uomini resta la foce del fiume in cui vivere in pace e coltivare la terra.
Questa è la legge di equilibrio e pacificazione della dea Bon Bibi, potente e misericordiosa, e regna sul mondo finché l’avidità di Dhona, un mercante spregiudicato,non infrange i confini e arma una flotta per invadere la foresta coi suoi uomini e derubarla di legname, miele e cera, le ricchezze della giungla.
Infuriato Dokkhin Rai li dilania e ne affonda le navi, invade di nuovo le coste e semina il terrore tra gli sventurati abitanti.
Sarà un povero orfanello, che tutti chiamavano Dukhey, che significa ragazzo triste, a intraprendere il lungo viaggio di là dai mari per invocare col suo canto, di nuovo, l’aiuto della dea potente e misericordiosa.
La leggenda di Bon Bibi è un miracolo di ibridismo; combina infatti elementi islamici, indù e folklorici tipici di tutte le popolazioni che abitano vicine alle foreste in tutto il mondo.
La legge di Bon Bibi regola i rapporti tra gli umani e le creature selvagge, ne delimita gli spazi nel rispetto reciproco e mette a freno violenza e avidità.
Si tratta di valori essenziali in un’epoca di crisi planetaria e il suo messaggio è quanto mai attuale, oggi che ci troviamo costretti a essere confinati per salvarci e possiamo e dobbiamo rivedere i nostri modelli di vita e i valori di fondo.
Il libro è per tutti, grandi e piccoli ed è bellissimo anche grazie alle illustrazioni di Salman Toor: ‘ I suoi disegni letteralmente illuminano, nel senso che gettano la propria luce sul testo’, scrive Amitav Ghosh nella postfazione.