L’Amleto di Binasco alle Fonderie Limoni di Moncalieri, è moderno, universale e privato allo stesso tempo
Inizia di nuovo la mai conclusa stagione di Amleto. E in attesa di quello kolossal di Latella del Piccolo Teatro (5 ore divise in due giornate, una si svolge in Danimarca e una in Inghilterra e protagonista Federica Rosellini) ecco alle Fonderie Limone di Moncalieri, fino al 19 maggio, quello di Valerio Binasco direttore dello Stabile di Torino.
Su un palco vuoto, dove c’è lo scibile del mondo, del teatro e della memoria. Si vedranno pochi oggetti, due tavoli e qualche sedia di quelle di formica, da latteria di una volta. Nel centro, stampato in caratteri d’inconscio, la tragedia più nota dell’universo teatrale non solo shakespeariano con la traduzione di Cesare Garboli oltre a qualche innesto non troppo visibile né molesto di Fausto Paravidino di cui, con tutta la stima, non si vedeva la urgenza.
Lo spettacolo è molto affidato alla verve degli attori, quasi alla loro improvvisazione, essendo lasciati liberi di agitare l’anima a modo loro. Amleto corre su per la platea quando fa alla fine, prima si sussurrare che il resto è silenzio, lo spadaccino con Laerte (Fausto Cabra) espediente non nuovissimo; e la Regina, una convincente Mariangela Granelli che dà peso e statura al personaggio edipico classico, quando annuncia la morte di Ofelia ci aggiunge che si tratta di un salice di merda. Speriamo in un provvidenziale taglio. La scena meravigliosa dei becchini viene prolungata a forza perdendo l’emozione del dialogo su York.
Amleto scorre, vive, rivive ed emoziona sempre. Michele di Mauro è disperatamente cattivo come re usurpatore e Rosancrantz e Guildestern si apprestano come sempre a diventare spie del loro amico principe infelice. Ogni tanto la regìa si diverte a dar fiato a un poco di varietà, parodia, allegria e ne subisce le conseguenze un Polonio (Nicola Pannelli che sta bene al gioco) che si diverte a fare una maxi macchietta, così come viene ampliato senza tagli tutta la parte degli attori e della recita, di solito monca.
Insomma, Binasco ci tiene alla integrità dell’opera tanto che non gli dà un suo taglio particolare: Amleto, il bravissimo Gabriele Porteghese che viene dalla scuola di Cecchi ed abbiamo visto nel “Sogno”, non vuole appartenere ad alcuna delle nevrosi conclamate in questi decenni di memorie di essere o non essere a partire dal nero esistenziale di Albertazzi e Zeffirelli: lui lo dice in un angolo, seduto, con un notes, giocando a sprecare il monologo più famoso del mondo e in realtà mettendolo proprio per questo in risalto.
Binasco, che interpretò il ruolo di Amleto con la regìa di Cecchi e vinse l’Ubu nel ’98, parla di una lettura empatica, desiderando che ciascuno uscito dalla sala risvegli una sua porzione di inconscio, qualcosa che era sopito e si risveglia grazie a un testo che è sempre più bello della volta precedente e meno della prossima. Così lo spettacolo è molto universale e molto privato nel medesimo tempo, vorrebbe evitare e ci riesce abbastanza tutti gli stereotipi perciò usa il nulla scenografico, qualche mobilaccio, una nevicata di terra sporca e abiti che definiremmo moderni con la regina in tacchi a spillo edipici, da Almodòvar.
Ciascuno pesca tra i suoi fantasmi e Shakespeare offre gran varietà di pregio, tra cui, come diceva Garboli parlando di questa sua famosa traduzione del 2009, il fatto che Amleto è prigioniero dell’elemento più primordiale dell’acqua e del fuoco, la famiglia e che la sua natura intellettuale si scontra contro la barbarie dei tempi (non facciamo fatica a riconoscerla).
Amleto è modernissimo perché parte dalle duecento stanze con bagno e cucina della reggia di Elsinore, con vista su fantasmi. Aggiunge Binasco che fare Amleto è mettersi in lotta e scendere in guerra contro buio, silenzio, disamore. E perdere, perché questi sono tutti soprannomi della morte, ma si combatte lo stesso. Così noi lo si vede e ascolta lo stesso e si applaude con l’uguale piacere della prima volta perché è come riavvolgere un nastro.
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