Il più grande attore italiano mai esistito

In Cinema

“Latin lover” di Cristina Comencini rievoca in un personaggio (finto) i fuoriclasse (veri) del nostro schermo. Ma nel suo film sono le donne protagoniste

Chi è Saverio Crispo, di cui tanto si parla in Latin lover di Cristina Comencini? È, né più né meno, il più grande attore della storia del cinema italiano: uno che è passato dal musical al western, passando per i film d’autore, le coproduzioni colte con la Francia, e imponendo il proprio talento anche a Hollywood.

È, indiscutibilmente, il migliore. Giusto quindi che la sua cittadina natìa, in Puglia, lo ricordi a dieci anni dalla morte, radunando per l’occasione due mogli (una italiana, una spagnola) e 5 figlie avute da altrettante donne diverse in paesi diversi (e i cui nomi, ma guarda un po’, iniziano tutti per “s”, come Saverio).

A dire il vero nella magione avita c’è una giovane cameriera – la vediamo spalancare le finestre della masseria nella prima scena – figlia di una domestica “storica” della famiglia, che voleva molto bene a Saverio…E la ragazza, ma guarda un po’, si chiama Saveria. Se volete pensar male, fate pure. Le figlie sono sei? Chissà, a fine film potrebbero essere di nuovo cinque.

Il problema è che Saverio Crispo non esiste, è il frutto della fantasia di Cristina, regista e scrittrice sempre a suo agio nelle saghe familiari e nelle feste nelle quali le famiglie, appunto, si riuniscono. La quale ha messo nel film almeno un elemento autobiografico: il fatto che suo padre, il grande Luigi Comencini, abbia avuto solo figlie femmine.

Ma la madre, per carità!, era una sola. Cristina e le sorelle – Eleonora, Paola che firma la scenografia del film, Francesca a sua volta regista – sono cresciute assieme e hanno goduto della presenza paterna assai più delle signorine Crispo raccontate in Latin Lover.

Tutti gli altri elementi che costruiscono la figura del “latin lover” del titolo sono un sapiente, divertente collage di alcuni grandi attori italiani (e non solo: la regista ha confessato allusioni anche ad Alain Delon, che in Italia ha molto lavorato).

Ci sono riferimenti artistici e biografici: i figli avuti da compagne straniere richiamano Gassman, Tognazzi e Mastroianni, la fama mondiale di “latin lover” rimanda a quest’ultimo; dalla carriera di Gassman ci sono anche citazioni inequivocabili (alla guida di una spider come nel Sorpasso, conciato come Brancaleone nella Armata omonima) mentre l’universo spaghetti-western, che Crispo sembra aver frequentato assai, fa pensare a Volonté (nei primi due film di Leone) ma anche a Franco Nero e Giuliano Gemma.

Una delle scene ricostruite, quella in cui Crispo balla il tip-tap assieme a 5 ballerine scosciate, una delle quali gli fa l’occhiolino, potrebbe addirittura far pensare a Sordi e Un americano a Roma, mentre ci sono sfuggiti accenni a Manfredi, ma promettiamo di rivedere il film o chiedere lumi alla regista per colmare questa lacuna.

Crispo, però, si vede solo in questi finti spezzoni, che la Comencini deve aver ricostruito con grande divertimento. In realtà il film racconta un coro femminile idealmente capeggiato da due matriarche, Virna Lisi e Marisa Paredes, che nella distanza del tempo sembrano aver messo da parte la gelosia in cambio d’un equilibrio da madri e nonne.

Assai più variegato e nevrotico il panorama delle figlie, dove la più clamorosa (anche lei, appena appena autobiografica) è la francese Valeria Bruna Tedeschi, ma la più tenera e convincente, il personaggio più bello del film, è la spagnola Candela Pena.

La morale del film, se proprio vogliamo trovarne una, è che di Crispo si poteva fare a meno, delle donne invece mai: tutte soffrono e hanno sofferto, tutte si sono litigate con le unghie uno sguardo affettuoso del padre-padrone, ma alla fine trovano dentro se stesse la forza di vivere. Passando per una tipica notte di chiacchiere e confidenze alcoliche, molto “femminile”, in cui tutte hanno finalmente il coraggio di raccontare qualcosa che non hanno mai raccontato prima.

Latin Lover non è necessariamente un film femminista, ma è un lavoro orgogliosamente femminile. Bello che l’abbiano scritto due donne (la regista e Giulia Calenda), che l’abbia scenografato la citata Paola e l’abbia montato (magistralmente) la bravissima Francesca Calvelli. È dedicato “a Virna”, e vedendolo non sarete mai sfiorati dal triste pensiero che Virna Lisi, mentre lo girava, aveva pochi mesi di vita.