Stato di minorità: politica e paralisi

In Letteratura

Daniele Giglioli in “Stato di minorità” analizza i sintomi dell’impossibilità di azione dell’uomo contemporaneo, l’importanza di prendere una parte e la necessità del conflitto

Le serie tv oggi formano l’immaginario collettivo forse molto più dei romanzi. Quando il 31 maggio gli italiani hanno iniziato a vedere le foto del premier Matteo Renzi giocare alla playstation molti di loro avranno immediatamente pensato a Frank Underwood, presidente degli Stati Uniti nella serie House of cards.

Il fenomeno Renzi, però, è emblematico di una più generale tendenza: ha scritto Slavoj Žižek che mai come oggi i gusti e le tendenze non sono quelle dei poteri dominanti, ma dei dominati; e lo dice bene Daniele Giglioli nel suo Stato di minorità: «guai al potente che non dà mostra di gusti popolari, che non ama il calcio, che non sa mangiare un hamburger, giù giù fino a quell’«estetica della volgarità» che è una chiave potentissima per ottenere consenso. La società capitalistica è culturalmente egualitaria […]. Solo culturalmente, certo: le disuguaglianze di censo, di potere e di informazione crescono a misura che il divide tra i valori si riduce. La radice della miseria simbolica sta in ultima analisi nello sfruttamento del simbolismo dei miseri: un simbolismo “pieno”, intessuto di immagini e desideri di abbondanza e di potenza, che è perfettamente vano stigmatizzare» (p. 54).

E vorrei partire proprio da qui per parlare di quest’ultimo – breve – saggio di Giglioli: le disuguaglianze. Quello di cui l’autore vuole dare conto è senz’altro un costante senso di frustrazione generalizzato, che nasce dall’impossibilità di agire politicamente. Questa condizione è percepita come una «malattia» poiché attacca quell’essere dell’uomo naturalmente animale politico, contravviene, cioè, a quell’elemento che definisce la specie umana come tale.

L’argomento di questo saggio è sicuramente politico, ma Giglioli è e rimane un critico letterario, ed è dalla letteratura che il discorso prende forma. Possiamo quasi dire che Stato di minorità sia un discussione sul romanzo Saggio sulla lucidità di Saramago. La trama del libro è piuttosto semplice: nella capitale di un anonimo Paese ci sono le elezioni comunali, i cittadini, in massa, votano scheda bianca e il governo, sentendosi privato del riconoscimento del potere, attua una serie di misure assurde e complottistiche contro la popolazione, la quale, da parte sua, resta pressoché impassibile.

Dagli spunti che questo romanzo offre, Giglioli passa a discutere la condizione della società contemporanea, partendo però sempre dalla letteratura, dandoci un esempio estremamente rincuorante di critica militante. Con gli strumenti del critico Giglioli riesce a porsi gli interrogativi giusti e condurre un discorso di respiro ampio, di messa in questione di sé e del mondo attorno a sé.

A venire constatato è che l’uomo contemporaneo si trova privato dell’agency (che si può tradurre grossomodo come possibilità di agire): sono gli altri a decidere, le nostre decisioni, le nostre azioni sono del tutto ininfluenti, saremo anche il 99% – per riprendere il noto slogan di Occupy Wall Street – ma il mondo è guidato da quella minuscola e onnipotente oligarchia che da sola incassa un quinto degli stipendi e detiene gran parte della ricchezza mondiale. «Noi paghiamo il prezzo dei loro misfatti – dice il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz a Zuccoti Park – Viviamo in un sistema che socializza le perdite e privatizza i guadagni. Questo non è capitalismo è economia distorta». Non stupisce che tutto ciò crei un senso di frustrazione – anche latente. Giglioli parte da questa evidenza: non c’è bisogno di argomentare, è tutto evidente ai nostri occhi – se vogliamo vederlo. Piuttosto cerca di cogliere dei sintomi di questo disagio e ne individua 5: l’immaginazione terroristica, l’idea traumatica, il vittimismo, la miseria simbolica e lo stato d’eccezione.

Tutti questi fattori ci riportano a quello stato di minorità del titolo, ci privano della possibilità di una prassi politica, ci fanno retrocedere al rango di sudditi, ci privano di quella capacità, di quella speranza di azione tipica del secolo scorso.

Emblematica allora può essere la riscoperta attenzione alla famiglia, al privato, concetti e strutture che si è a lungo cercato di mettere in crisi nel corso di tutto il Novecento. Questo perché la società odierna ha paura del conflitto, parola demonizzata oggi come non mai (e forse un ruolo in questo senso lo ha avuto anche la sconfitta delle sinistre); e invece il conflitto è creativo, generativo. Ma le parole della retorica invalsa oggi sono altre, quelle dell’armonia, della collaborazione (e di qui il ritorno della famiglia). In una intervista su Repubblica del 2013 Wu Ming 1 e Wu Ming 4 mettevano bene a fuoco la questione: «La destra sostiene che la società è una sola, omogenea, armonica, come una marmellata, peccato per quei grumi fastidiosi, gli allogeni, i disturbatori dell’ordine, il migrante e il dissenziente oggi, il comunista “sovietico” ieri, che vanno espulsi dalla comunità […] Se c’è qualcosa che tiene insieme le tante sinistre, parola imprecisa, è questo atteggiamento, ripartire dalla convinzione che la società è divisa, che il conflitto è endemico, inevitabile […] Puoi cercare di mediare il conflitto, puoi combatterlo, ma se sei di sinistra di certo non puoi negarlo». Per Giglioli è proprio questo che è venuto a mancare: la dinamica del conflitto, il prendere una parte. Oggi questo è possibile magari solamente nella scelta di fare la raccolta differenziata, ma così si riduce il conflitto al «manuale delle giovani Marmotte». Ma mettere in discussione il modello di vita occidentale è, nella vulgata, impensabile. Ed ecco allora il predominio dell’ideologia della concordia, l’unico mezzo per controllare il conflitto, anche a costo della paralisi

Scrive Romano Luperini sul suo blog Laletteraturaenoi, dove ha aperto un dibattito sull’argomento: «L’ontologia della natura umana presuppone sia la divisione sia la tensione a un ordine […]. Questa divisione e questa tensione sono ineliminabili e in conflitto permanente con l’assetto vigente che, all’interno dell’io e fuori di esso, nel sistema economico e politico, le cristallizza, le comprime e spesso (non sempre) riesce a soffocarle. Prender parte è dunque, secondo Giglioli, costitutivo del soggetto. Su questa strada egli recupera la lezione positiva del Novecento […]. Il rischio della posizione di Giglioli sta però nel fatto che la unica conflittualità che indica, oltre a quella di genere, sembrerebbe in interiore homine: è la critica verso se stessi e in particolare verso la parte di noi che giunge a compromessi o a forme di complicità col sistema.» Ma, io credo, la critica di sé è già il primo passo per il costituirsi dell’azione politica, purché a questa faccia seguito un momento propositivo che, purtroppo, oggi spesso manca.

Mi sembra che Giglioli voglia constatare che quello che il risveglio della storia che Badiou salutava nel 2012 non si sia verificato, almeno non in occidente (il discorso potrebbe essere in parte diverso per l’islam politico, per esempio). Nella presentazione del volume alla Libreria del Mondo Offeso   di Milano l’autore ha avuto modo di esprimere la sua sfiducia verso le fiammate improvvise che vivono solo di un attimo di splendore, per estinguersi al mattino successivo. Bisogna piuttosto recuperare la facoltà di immaginare: insomma dobbiamo scrollarci di dosso il fantasma di Bartebly lo scrivano. Questo bizzarro personaggio nato dalla penna di Melville rispondeva ad ogni domanda che gli veniva posto con un “preferirei di no”, anche quando in gioco c’erano le questioni che lo riguardavano più da vicino, dalla sua sussistenza alla sua esistenza.

Bisogna insomma cercare di fare un salto per tentare di uscire da questo stato di minorità, bisogna andare oltre la fase di negazione – in ogni caso presupposto dell’agire rivoluzionario –  a favore di una fase costruens, positiva. E qui possiamo tornare al romanzo di Saramago: anche lì c’era la parte del “no”, ma la popolazione si è fermata lì, non si è organizzata, non ha proposto delle alternative. «La loro singolarità non diventa soggetto perché non si individua e non si potenzia in un noi» (p. 50): e di fatto è quella che possiamo constatare anche nella nostra vita quotidiana. È finito insomma il mito novecentesco della partecipazione, abbiamo bisogno di paradigmi nuovi.

Giglioli non propone delle soluzioni, non offre una sintesi, non ci consegna la ricetta per risolvere i problemi. Semplicemente ci presenta questa condizione nella sua autoevidenza. Eppure, mi sembra, che una speranza riposta nel ruolo dell’immaginazione, e nelle arti ad essa legate, ci sia ancora; la possibilità di distaccarsi dal qui e ora per immaginare altri mondi, mondi diversi, dove magari si può sperimentare la scelta, il prendere posizione. Perdere l’unità per riguadagnare l’azione propulsiva.

Daniele Giglioli, Stato di minorità (Laterza, 2015, pp. 108, 14€)

Immagine: Critical Mass’ by Antony Gormley at the de la Warr pavilion in Bexhill on Sea di Lettuce

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