Battere Sentieri Selvaggi in compagnia di Carlo Boccadoro

In Musica

La musica contemporanea. Un terreno per molti accidentato con Boccadoro diventa agevole e stimolante da percorrere. E si parla con identica leggerezza di Glass e di Stockhausen, di Prince e Yoko Ono. Tutto mentre all’Elfo è iniziata la consueta e interessante stagione di Sentieri Selvaggi e in libreria è uscito 12, “formidabile viaggio nella musica meno consueta” del compositore e direttore d’orchestra

Sui Sentieri selvaggi non ci si annoia. Da vent’anni il gruppo fondato e diretto da Carlo Boccadoro fa musica del nostro tempo, e nessuno può dire che il piacere dell’ascolto e la curiosità intellettuale siano stati maltrattati. Preconcetti e luoghi comuni non sono di casa; le orecchie restano aperte su tutti gli stili e i suoni del mondo. Lunedì 5 marzo Sentieri selvaggi ha iniziato la sua ventunesima stagione (sette concerti al teatro dell’Elfo fino al 31 maggio, a lunedì alterni), e tradimenti al libero pensiero non se ne vedono. Per capire meglio di quale pasta siano fatti i loro programmi, c’è anche un nuovo libro che Boccadoro ha fatto uscire per la Sem. In copertina un grande 12, come i dischi scelti per raccontare le sue cavalcate nelle musiche (al plurale) da compositore contemporaneo il cui certificato accademico non ha mai posto limiti a passioni e ascolti senza confini.

Boccadoro, vent’anni e sembra ieri. Una curiosità: Sentieri selvaggi è un film di John Ford del 1956…
Sì, con John Wayne

Mirabile e anche ambiguo (oggi non sarebbe molto politicamente corretto). Ma era il film o il titolo a suggestionarvi?
Era il titolo della trasmissione che insieme a Filippo del Corno e Angelo Miotto tenevamo su Radio popolare. La chiamammo così perché in una radio che trasmetteva solo rock, e occasionalmente jazz, noi facevamo ascoltare musica contemporanea, dunque strade poco battute. Sentieri selvaggi, insomma, e per non prendersi troppo sul serio le abbiamo dato il nome del film.

Selvaggi sono anche i sentieri ci aspettiamo siano battuti dalla musica contemporanea.
O anche “rispetto alla” musica contemporanea, a differenza di certa musica contemporanea. Così abbiamo sempre fatto. Nel primo concerto di quest’anno, eseguiamo Returning di Mark-Anthony Turnage, uno degli autori più eseguiti al mondo, in Italia quasi per nulla. Se si pensa che ha avuto una commissione dai Berliner e dalla London Symphony assieme, s’intende a quale livello sia considerato. In Italia noi siamo gli unici a eseguire questo autore. Così come siamo stati per decenni, e forse siamo ancora fra i pochissimi che eseguono McMillan, e David Lang. Eseguiamo autori che poi vengono accettati, ma su certi sentieri siamo entrati per primi.

Dedicandovi a quel che l’accademia osteggia o non capisce.
Siamo alternativi ai festival ufficiali.

Avete riconosciuto tra i primi la ripetitività americana.
Che era già storia.

Ma in Italia non è stata ascoltata al momento giusto della sua forza eversiva sul Tempo.
Non usiamo atteggiamento diverso nel mondo delle cosiddette avanguardie. Quest’anno dedichiamo un concerto ad Armando Gentilucci, nome di cui molti si sono riempiti la bocca, ma la cui musica non si ascolta. Mi sembra più importante un concerto su di lui che il solito convegno, come si fa in genere per mettere in pace la coscienza.

In effetti, tra Turnage e gli Shaker Loops di John Adams, pezzo di transito dal minimalismo al massimalismo, c’è il Sestetto di Donatoni.
Che quasi mai si ascolta perché di una difficoltà folle. Fu eseguito dall’Accademia della Scala quattro o cinque anni fa e poi più. Un pezzo bellissimo, uno dei più belli del suo ultimo periodo, ma ai limiti dell’eseguibile; un sestetto che ha bisogno di un direttore. Ecco quell’avanguardia non solo la rispettiamo ma l’amiamo molto. Un’avanguardia non molto di moda oggi, ma noi andiamo avanti lo stesso.

Fra i concerti di questa stagione quali consideri più selvaggi?
Beh, uno molto interessante è quello che dedichiamo a Lorenzo Ferrero perché riproponiamo per la prima volta dopo quarant’anni un pezzo storico, Romanza senza parole, che quando venne eseguito, nel 1976, scatenò un putiferio: segnava la nascita del postmoderno in Italia. Era il primo brano a utilizzare materia consonante pur con tecniche molto complesse, indiscutibilmente d’avanguardia. Prima ancora della famosa lettera di Tutino, l’antesignano di un’alternativa all’avanguardia. Dopo la prima esecuzione diretta da Marcello Panni, questo pezzo a Milano non è stato più eseguito. Amo molto far sentire la musica che nasceva nei Settanta, perché erano gli anni in cui una generazione di musicisti cercava nuove vie. Sono spesso brani di difficile esecuzione perché allora, con maggiore disponibilità di mezzi, si scriveva per organici che ora è difficile permettersi. Però ogni tanto facciamo uno sforzo per riproporre musica che non è ancora di estetica neoromantica ma di passaggio fra avanguardia e qualcos’altro che stava nascendo.

Qualcuno ancor oggi è sicuro che la tonalità sia incompatibile con un linguaggio realmente contemporaneo.
Beh, ci sono ancora quelli che vanno a Predappio… Secondo certi nostalgici non dovrebbero neanche esistere le opere di Britten perché c’era già stato Webern. Un giorno capiranno che la musica non va né avanti né indietro. Ne abbiamo ascoltate tante, ma il darwinismo in musica è per fortuna estinto.

Veniamo a te: il libro. Dodici dischi con dodici storie. Li hai scelti tu o ti hanno scelto loro?
Li ho scelti fra i dischi sotterranei, nascosti. Se noti, molti libri tendono a consigliare dischi che tutti hanno già. A che serve segnalare dischi come The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd o Kind of Blue di Miles Davis? Io voglio dire: guarda che questo è un autore famoso ma ha fatto un disco sconosciuto. Cito Prince, sì, ma The Black Album è rarissimo. Un sacco di gente che ama i Rolling Stones nemmeno sapeva di Jamming with Edward, e l’ha conosciuto grazie al mio libro. Ho cercato di dissotterrare dischi che stanno nell’ombra, magari anche per colpa loro, come Musik im Bauch di Stockhausen, in cui c’è della follia.

Ma nel libro c’è anche un omaggio a Berio, sul quale hai perfettamente ragione quando scrivi, per testimonianza diretta, che negli ultimi tempi stemperò o fece cadere alcuni giudizi pesanti, se non sentenze irrevocabili, come quello sul suo allievo Steve Reich.
Certo e non solo: nell’ultima stagione a Santa Cecilia fece eseguire il Concerto per quattro saxofoni di Glass, che io mai avrei pensato potesse considerare. E poi commissionò quel grosso lavoro, Cecilia, vergine romana, ad Arvo Pärt, anche se lo aveva definito “Vivaldi nel frigorifero”. Alla fine lo accettò. Chissà dove sarebbe arrivato… A Santa Cecilia fece cose che se gliele avessero predette negli anni Settanta non ci avrebbe nemmeno creduto.

Anche la tua testimonianza certifica che Berio era di una stoffa molto diversa da quella di tanti colleghi.
Molto diversa. Come musicista non avrebbe composto Folk Songs, si sarebbe fermato prima. A lui non importavano alla fine molti tabù. Spesso predicava bene, ma nelle sue musiche razzolava in maniera molto diversa da come diceva. Pensa ad A-Ronne, Cries of London, alle trascrizioni, al suo rapporto con il passato. Come Maderna, il rapporto con la storia: una cosa molto italiana e molto loro. TI vedi Stockhausen che arrangia i Ländler di Beethoven?

Stockhausen, che pure con Bird of Passage assaporò il piacere di essere sistemato sugli scaffali pop.
Ma certo che era interessato alla comunicazione, e influenzò anche Miles Davis, ma non si sarebbe mai concesso quel tipo di operazioni. Forse su altre musiche, ma non sulla tradizione classica. Mentre Berio lavorava su De Falla, su Purcell, su Bach. Come Maderna ha lavorato tutta la vita su Legrenzi, Vivaldi, Monteverdi. Una cosa molto nostra.

Tra i dodici dischi che segnali e racconti c’è qualche prediletto?
Il primo, Plastic Ono Band di Yoko Ono. Un disco profetico, del suono che sarebbe arrivato trent’anni più tardi. Certe cose di John Zorn sembrano pecorelle al confronto. Anche perché in quel disco gli altri musicisti, John Lennon e Ringo, suonano con una libertà straordinaria proprio perché non erano costretti nelle forme note. Molto più di avanguardia e coraggiosa di quella in abito da sera di quegli anni. Libertà estrema che non ha perso un’oncia della sua forza, e che scatena rifiuti ancor oggi. Io lo consiglio, ma raramente vengo ascoltato: la voce di Yoko Ono stimola ancora reazioni di totale rifiuto.

Interessante che questa mutazione su Lennon e i codici della musica pop venisse da un’artista visiva.
Però collaboratrice anche di Cage, di Ornette. Ma si sa che le arti visive si muovono sempre in anticipo.

Si liberano un po’ prima dei lacci.
Sì, l’impressionismo in musica è venuto vent’anni dopo, il minimalismo in musica vent’anni dopo. Le arti visive sono quelle che annunciano quel che verrà.

Il primo Glass è nato nelle gallerie d’arte
Con Frank Stella, con Bruce Nauman. Come diceva Berio, la musica si muove come le montagne, con grande lentezza. Mentre le arti visive, e la stessa danza, cambiano a una velocità impensabile rispetto alla musica. Noi siamo ancora qui a discutere su tonalità e atonalità, mentre se si guarda alle arti visive il problema figurativo o non figurativo è stato risolto all’inizio degli anni Ottanta. Noi ci muoviamo al ritmo dei ghiacciai.

Ogni disco ha come preludi altrettanti tuoi “pezzi di vita”.
Ricordi di infanzia, di quanto andavo in giro a suonare, di quando facevo il pianista. Avendo avuto la possibilità di fare tante cose diverse, ho cercato di legare ciascuna a un disco: la radio, le contestazioni… Cerco di tracciare un quadro di un periodo storico di cui va molto di moda parlare male. Non era solo violenza, piombo ma anche grandissima creatività, fantasia che non si è più ripetuta.

Comunque fa impressione, nei ricordi di un compositore “colto”, sentir citare con rispetto Cocteau Twins, Steely Dan, Area, Claudio Lolli, Rufus Harley, Harold Budd, Roxy Music, Nicky Hopkins… Alcuni, chi se li ricorda più?
Gente del mio ambiente no, ma sai, io sono di ascolti plurimi. La generazione degli anni Cinquanta era più digiuna di queste esperienze. Oggi siamo in parecchi a nutrirle. Nei più giovani, poi, è normale.

Sentieri selvaggi ha seguaci?
Sì, sul nostro esempio siano nati altri gruppi. Come Eutopia Ensemble di Genova, partiti proprio come nostri fan; li ho anche diretti per aiutarli. E AltreVoci Ensemble, tutti ragazzi di vent’anni, molto bravi, tecnicamente agguerritissimi, che ci hanno presi come esempio di libertà di pensiero. Poi ci sono quelli che vogliono il bollino blu e cercano di fare solo la musica che “bisogna” fare, ma fa piacere che nascano realtà che ragionano in maniera autonoma e che noi siamo stati uno stimolo alla loro nascita.

Senti in loro la stessa consapevolezza?
Sì, in alcuni sì. Sento la coscienza di lavorare in contesti che ignorano del tutto la musica contemporanea. E questi giovani si mettono insieme con coraggio, investendo anche risorse. Un ottimo segnale. La crisi non è dentro, ma fuori: siamo ignorati da chi può realmente aiutare e non lo fa.

Il Leone alla carriera della Biennale Musica a Keith Jarrett, su che posizione ti trova.
Mah, io aspetto sempre che qualcuno abbia il coraggio di darlo a Louis Andriessen o a Philip Glass. Da una parte si danno leoni a Kurtág o Sciarrino, e va bene, piove sul bagnato. Dall’altra, invece che ad autori magari maledetti, che hanno realmente messo in crisi le avanguardie, lo si dà a musicisti di jazz… Jarrett ormai è un classico… Quando non si daranno premi “trasversali” ma veramente rischiosi, allora crederò alla buona fede di certe istituzioni.