Overbooking festivaliero – con nomi di prestigio – all’ombra del Vesuvio

In Teatro

FOTO © Lia Pasqualino

Grande “accumulo” di teatro e nomi interessanti nel circuito festivaliero della Regione

Lo spettatore dovrebbe aver il potere di sdoppiarsi in 4 per riuscire a seguire nelle stesse ore l’Altofest, la “piccola” ma importante manifestazione teatrale diffusa sull’intera mappa di Napoli che da 11 anni porta gli spettacoli negli spazi privati di appartamenti messi a disposizione da “cittadini donatori”, a cui si aggiunge l’ipertrofico e accentratore Campania Teatro Festival oltre la boa del terzo lustro e il Pompeii Theatrum Mundi (all’ediz. n.6) salvato all’ultimo momento dopo i contestati tagli della Regione Campania.

Cominciamo proprio da qui, dalla magica location classica del Teatro Grande pompeiano, dove Roberto Andò ha ambientato la sua Clitennestra, “sua” al 100% in quanto oltre alla drammaturgia che ha tratto a partire dall’altra riscrittura del mito degli Atridi operata da Colm Tóibín in La casa dei nomi (disponibile in italiano grazie a Einaudi), l’ha fatta agire da un faraonico cast che di certo non potrà essere al completo quando lo spettacolo andrà in tour sui palchi dei vari teatri stabili nella prossima stagione.

Al centro una Isabella Ragonese di rara intensità espressiva e consapevole dell’ardua prova professionale per cui è stata scritturata (brillantemente superata!). La sua regina di Micene è soprattutto una madre dolente a cui è stata sottratta con l’inganno una figlia, perché possa venir sacrificata e così i venti tornino favorevoli alla partenza della flotta per Troia. Riesce a sottrarsi al giudizio comune che la vuole assassina mossa dalla libidine, antenata della Gertrude shakespeariana, e a farla procedere in un empatico percorso di perdita, dolore e rancore.

A emergere è il lato materno di una figura raggirata, violata negli affetti, abbandonata e lasciata totalmente sola dal marito fedifrago e da entrambi i figli. Tanto da giustificare pienamente la sua metamorfosi prima in Dark Lady (cinematografica!) e poi in una Lady Macbeth ante litteram. Con un netto scarto tra la prima parte, più articolata e dilatata, che culmina nel climax del sacrificio di Ifigenia, mirabilmente reso dalla regia con un semplice foulard insanguinato appoggiato sul volto dell’attrice seduta in immobile attesa al centro della cavea, rispetto a una conclusione finale in cui va a chiudersi la relazione con Egisto – quasi a riempire un horror vacui – l’omicidio di Agamennone nudo nella vasca, il conflitto con Elettra e l’assenza di Oreste. Senza che venga mostrata la drammatica fine della protagonista.

La puntata seguente è posticipata ai versi di Eschilo e alla sua Orestea. In scena restiamo con una Clitennestra totemica, essere umano solitario, trasformato in figura eroica grazie al dolore patito e alle azioni compiute, e in quanto eroe circondato solo da fantasmi del passato e condannato al vuoto di relazioni con qualsiasi altro individuo. Fuori da ordini narrativi cronologici, fuori dal tempo, fuori da giudizi morali.

Tra le lapidi, tra i sarcofagi/vasche, tra la terra e il sangue che vanno a comporre una scenografia evocativa e inquietante, paesaggio custode di macabre ombre, agili quanto disinvolte nelle azioni. Sempre presente in scena, vigile e partecipe, un coro di 40 elementi osserva quanto avviene senza proferir parola, muto o incapace di intervenire o di commentare (è questa la differenza tra l’espressione della collettività dell’epoca classica a confronto con la coscienza della società dell’oggi?) con l’eccezione di una singola figura femminile la cui voce di spiegazione e di critica è di quelle che si perdono nel vento.

Del resto le sofferenze, gli abbandoni, le violenze patite sono declinati principalmente al femminile con l’Ifigenia di Arianna Becheroni che si dona volontariamente alla propria fine e l’Elettra di Anita Serafini (attrice sorprendentemente più matura dei suoi 16 anni anagrafici) che conosce bene il destino di solitudine cui sta per consacrarsi. 

Agli uomini, il fragile Agamennone di Ivan Alovisio o il manipolabile Achille di Denis Fasolo, restano le stesse qualità e difetti dei fuchi nell’alveare. Il tutto nel magnifico disegno luminoso concepito da Gianni Carluccio che va a sottolineare con taglio cinematografico i momenti cruciali della tragedia come l’uscita di scena dei due personaggi quando stanno per divenire amanti e vengono illuminati dal seguipersone solo sul volto di ¾ come per portarli come in primo piano su un grande schermo. Del resto anche l’evocativa colonna sonora viene utilizzata come un continuum narrativo, proprio alla maniera cinematografica.

FOTO ©ivan nocera per teatro di napoli

A collegare idealmente il palco all’aperto di Pompei e quello del Teatro Mercadante ci sono i nomi di Antonio Latella regista e Ruggero Cappuccio drammaturgo, accomunati nel titolo Circus Don Chisciotte. Il primo aveva fatto vivere i medesimi eventi del mito eschileo nell’ormai storico capolavoro teatrale Santa Estasi, l’altro è l’autore della rielaborazione del testo di Cervantes (da lui già portata in scena), ma è anche l’attuale direttore artistico del Campania Teatro Festival e ora è proprio il Festival a riproporlo in una nuova forma. Il mix di questi incroci ha portato a uno spettacolo site specific che ha rivoluzionato la fruizione negli spazi della settecentesca sala all’italiana del Mercadante.

Il pubblico guarda gli eventi dall’alto stando seduto nei palchi, mentre la platea è svuotata dalle poltrone e ospita postazioni in file ordinate con monitor analogici, tavolini, scrivanie e poltroncine vintage agiti dai due protagonisti e da una pletora muta di spettatori/comparse (noi per procura). Su tutto domina dal boccascena un enorme display a palette mobili (come quelli delle stazioni ferroviarie) le cui informazioni vengono ritrasmesse sui monitor.

Il vero palco del teatro viene usato solo nella seconda parte dello spettacolo, quando i giochi e gli intenti si sono ormai chiariti e i due protagonisti sono comparsi come fanciulleschi e assurdi ibridi tra ghostbuster e transformer con tanto di colorato piumino Yaju Rainbow Static Duster sulle spalle più ombrello, abatjour e altri accessori. Chiaro che ci troviamo dentro un gioco, un gioco totale in cui però si dicono e si trovano grandi spunti e proposte di riflessione. Si gioca con le parole, con il loro senso, con la loro forma (quanto si sarebbero divertiti ieri un Achille Campanile o oggi uno Stefano Bartezzaghi!) a vedere la parola amore scomposta e commentata lettera per lettera A/M/O/R/E – M/O/R/E – O/R/E – R/E –

E passando dalla definizione del termine che indica l’affetto alla morfologia di un pettine verticale con tre soli denti. I segni e i temi si moltiplicano e si sovrappongono moltiplicati esponenzialmente, la definizione del sé identitario con gli orizzonti prossimi proposti dall’intelligenza artificiale, la spersonalizzazione da iperesposizione ai mass media con il ruolo sociale dell’individuo… troppo? un eccesso? sì, ma un troppo e eccesso consapevole da parte della regia, tant’è che con innegabile autoironia in mezzo alla nebbia che a un certo punto invade l’intero teatro fa esplodere per un attimo anche gli schermi dei monitor in platea. Cervantes? Il rapporto tra l’utopia di Chisciotte e i sogni terreni di un Sancho che ora diventa Santo?

Servono a Latella più che a Cappuccio per lanciare l’ennesimo SOS a una contemporaneità manipolabile e manipolata. Lo supportano un Michelangelo Dalisi, interprete sempre più maturo, incarnazione di un’arcaica memoria aristocratica di Chisciotte, sodale e antagonista di uno strepitoso Marco Cacciola, piacentino ora perfetto partenopeo, che solo con la voce riesce a passare dalla risata al belato e dal belato alla metamorfosi in pecora (Circe avrebbe saputo far di meglio?). Così quando alla fine vediamo correre sugli schermi di un teatro rimasto al buio e vuoto di presenze umane ci chiediamo “metafora di un Ronzinante finalmente diventato stallone o Furia Cavallo del West?”. Di certo un gran bel ritorno al teatro di Latella dopo il silenzio sabbatico dell’ultimo periodo.   

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