Pop, rock, alt-country, psichedelia, punk, classica, lirica, jazz: i nuovi album, le ristampe, gli eventi musicali significativi
GLI APPUNTAMENTI
Settimana classica a Milano. Io ho scelto:
– La Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Chailly (Teatro degli Arcimboldi, mercoledì 20). Musiche di Ligeti, Bartok e Respighi.
–Orfeo. Flebile queritur lyra. Melologo di Silvia Colasanti, con l’Orchestra Verdi diretta da Patrick Fournillier e l’attrice Maddalena Crippa (Auditorium, 21, 22 e 24).
–Tamerlano di Georg Friedrich Händel (Teatro alla Scala, venerdì 22, replica lunedì 25) con strumenti d’epoca, dirige Diego Fasolis. Con Placido Domingo.
–Musica Maestri! (Conservatorio Giuseppe Verdi, domenica 24). Musiche di Brahms e Schumann. Con Luca Braga al violino, Roberto Tarenzi viola, Fabrizio Scillo violoncello, Massimiliano Baggio pianoforte.
POP & ROCK
Steve Earle – So you wannabe an outlaw/ News from Colorado/ Guitar town/ Christmas in Washington
Nuovo album, il quattordicesimo di studio, So you wanna be an outlaw (***1/2) per Steve Earle, irruento protagonista dell’alt-country americano. Dire alt-country significa mettere un grosso cartello segnaletico: qui non ascolterete musica destrorsa da Dio patria famiglia, Earle non ha nessuna simpatia per Trump come non ne aveva per Bush. Classe 1955, texano nato in Virginia, vita più che spericolata – sette matrimoni, due con la stessa donna; due anni di carcere per possesso e uso di droga e successivo rehab –, undici nomination ai Grammy e uno vinto, sulla scena dal 1986 (ma l’esordio è ai cori in una delle canzoni più belle del cantautorato americano, Desperados waiting for a train di Guy Clark), Earle non ha mai nascosto le sue simpatie leftist e si è speso nelle battaglie per i diritti civili e contro la pena di morte. Ed è un grande autore e un interprete energico, che alterna un rock da blue collar a un country intimista e raffinato. È così anche nel nuovo lavoro, del quale propongo i primi due brani in scaletta. Gli altri due, perché vi facciate un’idea, rimandano al suo clamoroso esordio (Guitar town, 300mila copie vendute nel 1986) e alla sua vena impegnata: la bellissima Christmas in Washington, che auspica il ritorno di Woody Guthrie, Emma Goldman, Martin Luther King e Malcolm X.
Happyness – Falling down/ The real starts again/ Through windows/ Victor Lazarro’s heart
Loro sono inglesi, hanno esordito nel 2015 con Weird little birthday e ora ci riprovano con Write in (****), che il quotidiano The Irish Times ha definito «il miglior album dell’anno realizzato con 500 sterline». Impresa più che rimarchevole, se si pensa che gran parte del budget è stato speso per acquistare un deumidificatore e un registratore a nastro a otto tracce. Grandi canzoni, buoni modelli (io ci sento Pavement, Yo La Tengo, Wilco, Nada Surf, un pizzico di Beck) per un power pop di buccia brillante e notevole ricchezza melodica, con un incedere dondolante e indolente e più di un eco seventies. Piacevole.
The Magpie Salute – Comin’ home / Wiser time/ Goin’ down South/ Ain’t no more cane
The Magpie Salute sono un nuovo supergruppo nato dalle ceneri dei Black Crowes, da cui prelevano Rich Robinson che ne era co-leader assieme a Marc Ford, e Sven Pipien (Eddie Harsch è morto poco dopo la realizzazione del disco). The Magpie Salute (Live) (****) è un disco potente e di grande impatto, ibrido nella realizzazione ( è un live registrato in studio a Woodstock, con una piccola audience chiamata ad assistere all’incisione in presa diretta) e nel repertorio. E infatti Wiser time e What is home pescano dai Black Crowes, Comin’ home da Delaney & Bonnie, Goin’ down South da Bobby Hutcherson, War drums dai War, Ain’t no more cane dalla Band, Fearless dai Pink Floyd, Glad and sorry dai Faces di Rod Stewart, Time will tell da Bob Marley.
Chris Stapleton – Second one to know/ Up to no good livin’/ Either way/ I was wrong/ Death row
Kentuckiano, capelli lunghi e barba da outlaw, classe 1978, Chris Stapleton ha scritto molto per altri (anche per Adele), prima di esordire nel 2015 con Traveller, primo in classifica di Billboard, che gli ha fruttato due Grammy nel 2016. From a room vol. 1 (***1/2, il secondo episodio dovrebbe uscire entro l’anno), registrato a Nashville nel leggendario Studio A in cui incideva Elvis Presley (alla console c’è il miglior produttore country del momento, Dave Cobb), propone un country elettrico ed essenziale, senza troppi fronzoli e a tratti con inflessioni bluesy, sorretto da una voce veemente a suo agio nei toni alti.
Jane Weaver – Modern kosmology / Slow motion / Loops in the secret society / The architect
Vent’anni di carriera alle spalle, da sola e in un paio di band (britpop con i Kill Laura, folktronica con i Misty Dixon), l’inglese Jeane Weaver propone con Modern kosmology (***1/2) dieci brani che mischiano psichedelia ed elettronica, a volte memori del krautrock dei Kraftwerk. Nessuna sorpresa forse, ma una voce raffinata e una resa sonora impeccabile.
The Gluts – That’s me/ Squirrel/ Come to fire
Noise rock, echi gotici, psichedelici e punk da Milano. Loro sono The Gluts, il dirompente Estasi (***1/2) esce per l’etichetta londinese Fuzz Club, punto di riferimento della neo-psichedelia internazionale.
IL RECUPERO
U2 – Where the streets have no name/I still haven’t found what I’m looking for/ With or without you/ Running to stand still/Red hill mining town
Compie trent’anni The Joshua tree (*****), per me il disco più bello degli U2 assieme all’esordio di Boy (1980) e a The unforgettable fire (1984). Dopo, a questi livelli, la band irlandese si esprimerà soltanto con Achtung baby del 1991, per scivolare poi in una patinata e miliardaria routine. Meno inventivo forse del “fuoco indimenticabile”, The Joshua tree ha tuttavia brani più solidi e a fuoco e una tripletta iniziale memorabile (Where the streets have no name, I still haven’t found what I’m looking for, With or without you) che fa di loro la più grande rockband di quegli anni. Nella Superdeluxe edition da quattro cd o sette vinili c’è anche un live ’87 al Madison Square Garden che gronda energia e splendore e remix non memorabili (ma è grande Red hill minng town ricantata). Più un libro fotografico di The Edge e otto stampe a colori di Anton Corbijn.
IL JAZZ
Michela Lombardi – Material girl / Live to tell / Holiday/ La Isla Bonita / Close enough for love / Solitary moon / The shadow of your smile
Un disco che interpreta in chiave jazz il repertorio di Madonna, che idea. Lo propone la viareggina Michela Lombardi, che ha già inciso con Renato Sellani e Phil Woods, ha firmato un brano con Burt Bacharach e ha avuto una sua canzone, nel 2001, al dodicesimo posto della classifica americana.
Pubblicato dall’etichetta americana Dot Time, Live to tell (***1/2) ha ospiti di lusso come Don Byron al clarinetto e Steven Bernstein alla tromba (completano la line-up Riccardo Fassi alle tastiere, Luca Pirozzi al basso e Alessandro Marzi alla batteria). Michela Lombardi è elegante e convincente nel rileggere e nobilitare miss Ciccone, ma ascoltatela anche in Solitary moon del 2016 (****) cimentarsi con la musica di Johnny Mandel, autore per Frank Sinatra, Anita O’Day e Shirley Horn, assecondata dal Piero Fassi Trio e da Emanuele Cisi al sax tenore.
Gabriele Coen – Keter / Chokmah/ Chessed/ Hod
Il sassofonista, clarinettista e flautista Gabriele Coen, nato a Roma nel 1970, è una delle presenze più vitali del jazz italiano. E al tempo stesso, come dice di lui John Zorn, «sta componendo
oggi una delle più emozionanti e fantasiose Nuove Musiche Ebraiche». Lo ha fatto con la formazione Klezroym, sposta in alto l’asticella con Sephirot (****1/2) che rende omaggio alla mistica ebraica, ispirandosi all’albero della vita della Kabbalah. «Spiritualismo ed elettricità sono i due principi che ho voluto coniugare in questo mio nuovo lavoro, attraverso dieci composizioni originali ispirate al jazz elettrico di Miles Davis e alle nuove sonorità di John Zorn». Il misticismo, nel jazz e nel rock, ha avuto esiti spesso assai alti: Coen ricorda giustamente A love supreme e Ascension di John Coltrane, ma anche Sun Ra, Don Cherry, John McLaughlin e Beatles. Lo assistono, in questa affascinante impresa, Lutte Berg e Francesco Poeti alla chitarra elettrica, Pietro Lussu al Fender Rhodes e all’organo Hammond, Marco Loddo e Mario Rivera al basso elettrico, Luca Caponi alla batteria e Pierpaolo Bisogno alle percussioni.
LA CLASSICA
Francesco Mazzonetto esegue musica pianista italiana
Giovanissimo (è nato a Torino nel 1997), dopo aver vinto una quindicina di concorsi in patria e all’estero (su YouTube potete ascoltarlo misurarsi con Mozart, Bach e Chopin) Francesco Mazzonetto è stato la rivelazione dell’edizione 2015 di Piano City. In Italian piano works (****), il suo esordio discografico, si dimostra capace di scelte inconsuete. Niente romantici, niente sublimismo, ma i Quindici preludi di Nino Rota, due sonate di Cimarosa e Galuppi, un brano di Sgambati sull’Orfeo di Gluck, la Sonata in si minore op. 40 di Clementi, la Kammer-Fantasie uber Bizets Carmen di Busoni. Ammirevole.