Gerda Taro, scrittura e fotografia #2

In Letteratura

I mille volti della fotografa Gerda Taro attraverso la penna di Helena Janeczek

È il 1° agosto del 1937, a Parigi si celebrano i funerali (organizzati dal partito comunista francese) di una ragazza, lei si chiama Gerta Pohorylle ma tutti la conoscono con il nome di Gerda Taro, è anche il giorno del suo compleanno, il ventisettesimo, ma Gerda è morta qualche giorno prima, il 26 luglio a Madrid.

Più di centomila persone accompagnano il feretro di questa giovane donna, bella, spavalda e piena di vita oltre che di talento, è La ragazza con la Leica.

Pablo Neruda pronuncia l’elogio funebre e Alberto Giacometti realizza il monumento sepolcrale per la tomba che viene collocata al Père Lachaise, nella zona dedicata ai rivoluzionari. La tomba fu violata e danneggiata durante l’occupazione tedesca e sembra che nessuno se ne sia mai più preoccupato.

La ragazza con la Leica di Helena Janeczek è stato per me l’ultima bellissima lettura del 2017, dopo pochissime pagine era già entrato nella mia classifica personale dei libri più belli letti nell’anno appena passato.

Perché mi è piaciuto tanto? I motivi sono molteplici, primo fra tutti la scrittura di Helena Janeczek che ho trovato raffinatissima; inoltre La ragazza con la Leica non è solo un magnifico ritratto di Gerda Taro, è anche il racconto minuzioso di alcune importanti pagine della nostra storia più recente.  A tutto ciò aggiungete il mio interesse per la fotografia e l’ammirazione per le foto di Capa, compagno di Gerda al momento della sua scomparsa.

Il libro è diviso in tre sezioni, Helena Janeczek ci racconta Gerda attraverso gli occhi e i ricordi di tre persone: Willy Chardack, amico della fotografa e innamorato pazzo di lei, Ruth Cerf, l’amica di Lipsia con la quale Gerda aveva convissuto per diverso tempo, infine Georg Kuritzkes, amico e poi fidanzato di Gerda, prima di Capa.

È una telefonata tra Willy Chardack e Georg Kuritzkes, a dare il via alla storia, William (detto il bassotto) vive a New York, è uno scienziato affermato (ha inventato il  pacemaker), Georg invece a Roma ed è un medico della Fao.

La narrazione è in seconda persona e non segue un vero ordine cronologico ma Helena Janeczek è riuscita a creare un filo conduttore nonostante i tre diversi punti di vista delle voci narranti: rievocano i loro ricordi, i sentimenti che hanno provato per questa piccola donna dall’aspetto fragile ma che riusciva a lasciare un scia di energia ogni volta che arrivava in un posto, Willy, Ruth e Georg parlano di lei circa trent’anni dopo la sua morte e i ricordi sono ancora vivi. Leggendo La ragazza con la Leica il lettore sa di essere negli anni Sessanta ma viene continuamente catapultato dalla macchina del tempo dei ricordi negli anni Trenta. I continui flashback utilizzati dalla Janeczek sono costruiti in modo esemplare, il lettore riesce ad attraversare, con la narrazione, gli spazi e il tempo o meglio i “tempi” in cui si svolgono le vicende.

Se i riferimenti a fatti e persone sono spesso supportati da fonti che li confermano trasformando questo narrare in storia vera, l’ardore, lo sgomento, i sentimenti con cui alcuni episodi arrivano al lettore fanno pensare a due cose: al fatto che La ragazza con la Leica è un saggio con una allure di romanzo e la seconda che l’autrice, lei stessa tedesca con genitori ebrei originari della Polonia, riesce a posare il suo sguardo su avvenimenti come quelli legati all’epoca del nazismo restituendo a chi legge un sentimento di profondo dolore.

Gerda Taro, come dicevo prima, si chiamava in realtà Gerta Pohorylle, era nata a Stoccarda da una famiglia della borghesia ebraica, bella e intelligente, si distinse presto nella lotta antinazista (nel 1933 venne arrestata perché sospettata di aver distribuito volantini antinazisti), testimoni raccontano di quei 17 giorni di detenzione durante i quali riuscì a comunicare con le altre detenute dalla sua cella inventando un linguaggio fatto di colpi cadenzati, ovunque arrivasse Gerda riusciva a costruirsi un piccolo seguito.

Gerda decise di cambiarsi il nome per gioco (l’artista giapponese Taro Okamoto, che aveva conosciuto a Parigi fu fonte d’ispirazione per il cognome), quando già frequentava Robert Capa (lo conobbe nel 1934 a Parigi, il fotografo ungherese Endre Friedmann all’epoca si faceva chiamare Andrè), i due condividevano il sogno di raccontare la storia attraverso le immagini, fu Gerda che contribuì a “creare” il fenomeno Capa a partire dal nome stesso, i due decisero infatti di sostituire Endre/Andrè Friedmann con questo nome dal sapore più americano, doveva ricordare Frank Capra, e con questo nome vennero pubblicate foto di entrambi, era una sorta di “marchio” distintivo, durante la guerra civile spagnola  i loro reportage venivano pubblicati su Regards e Vu sotto il nome Robert Capa che si affermò a livello mondiale fino ad ottenere il titolo di miglior fotografo di guerra, solo successivamente e poco prima di morire, Gerda si appropriò di una sua identità professionale pubblicando con il “marchio” Photo Taro, in occasione della firma del contratto con Ce soir, quotidiano di orientamento comunista fondato da Louis Aragon e Jean-Richard Bloch.

«Si trascinava dietro la fotocamera, la cinepresa, il cavalletto, per chilometri e chilometri. Ted Allan ha raccontato che con le ultime parole ha chiesto se i suoi rullini erano intatti. Scattava a raffica in mezzo al delirio, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri. Il buon soldato Gerda: non ne dubito. Ma non capisco, no»

Già, perché Gerda aveva coraggio da vendere, forse più dello stesso Capa e sicuramente più di Ted Allan, il giornalista canadese che era con lei il giorno della sua morte e l’amica Ruth non arrivava a capire cosa la spingeva ad andare così oltre

«il coraggio le dava alla testa, come uno Schnaps mandato giù per sfida».

Helena Janeczek ha declinato in più versioni dunque la personalità travolgente di questa ragazza, dovendo scegliere io sceglierei forse la Gerda dei ricordi di Ruth, sua complice in tutto o quasi per moltissimo tempo, l’amica che non la giudicava mai e che riusciva a perdonarle ogni cosa. Fu Ruth a far incontrare Gerda e Capa quando lui chiese a Ruth di farle da modella per una foto e lei, che aveva bisogno di soldi chiese all’amica di accompagnarla, fu intesa immediata con quell’ungherese che raccontava di aver fotografato Trockij nel ’32.

 «Era spiazzante, Gerda. Non somigliava a nessuna delle ragazze che Ruth aveva conosciuto a Lipsia: né a quelle come lei, che quando si innamoravano smettevano di notare gli altri uomini (…) La bambolina arrivata da Stoccarda era qualcosa di diverso. Che cosa, di preciso, Ruth non lo aveva ben capito (priva di pregiudizi combaciava con spregiudicata? Non del tutto»

Ho adorato anche la parte in cui Georg ripensa a Gerda e Capa passeggiando per Roma, i pensieri interrotti dalle mille distrazioni che le strade della città gli procuravano, avendo io vissuto a lungo a Roma ho apprezzato le descrizioni che nella parte terza l’autrice fa della capitale cogliendone sempre l’essenza:

«Qui conta la visione del colore, la materia del colore, la polvere giallastra che si leva dalla strada. Gli intonaci corrosi, pastosi sulle costruzioni basse, i laterizi infossati, la ruggine sui tetti di lamiera. L’indifferenza torpida o chiassosa degli abitanti. Umanità proletaria e sottoproletaria che per due spiccioli di diaria non disdegna certo il costume dell’eterna plebe romana, ma chiede altro che fare massa in qualche kolossal».

Un racconto travolgente quello che fa Helena Janeczek , appassionante seguire attraverso i personaggi la nascita della stampa periodica, delle riviste illustrate, bello rileggere la storia pensando a quel folto gruppo di intellettuali che erano partiti per la Spagna per documentare ciò che stava accadendo, quella guerra che oggi appare come una sorta di anteprima della Seconda Guerra Mondiale, c’erano Hemingway, Orwel, Tina Modotti, la fotografa italiana, sono andata a cercare i nomi degli amici dei due fotografi, c’era per esempio David Szymin, noto come David Seymour o con lo pseudonimo Chim che nel 1947, co-fondò la cooperativa di fotografi Magnum Photos, con Robert Capa e Henri Cartier-Bresson.

Ho riflettuto, pagina dopo pagina, anche sul ritratto di Capa che si è delineato attraverso i racconti dei tre narratori, ammetto che l’immagine del  fotografo che pure ho amato e di cui ho collezionato libri e stampe di foto famose (quella con Picasso e Françoise Gilot l’ho tenuta per anni in salotto) non è più la stessa, lo stesso Richard Whelan, uno dei biografi di Capa, si è prodigato per fare in modo che il lavoro del fotografo ungherese fosse “scisso” da quello di Gerda il cui talento era altrettanto grande se non superiore, solo nel 2007 con il ritrovamento della “valigia messicana” contenente 128 spezzoni di pellicola, 4.000 fotografie inedite riguardanti Gerda, Endre e Chim, scomparse dallo studio parigino di Capa dopo la sua partenza per gli Stati Uniti nel 1939 si è tornati a parlare di questa incredibile ragazza, delle sue foto, della sua morte degna di un set “cinematografico”, del suo spirito libero che la spinse a dire no alla proposta di matrimonio di Capa, e si sa, “Gerda amava sentirsi la parte migliore di Robert Capa”.

«Da quando hai visto quella foto, ti incanti a guardarli. Sembrano felici, molto felici, e sono giovani, come si addice agli eroi. Belli non potresti dirlo, ma neppure negarlo, e comunque non appaiono eroici per nulla. Colpa della risata che chiude i loro occhi e mette a nudo i denti, un riso non fotogenico ma così schietti da renderli stupendi. Lui ha una dentatura da cavallo e la esibisce fino alle gengive. Lei no, ma il suo canino spicca sul vuoto del dente successivo, seppure con la grazie delle piccole imperfezioni attraenti.»

È il prologo de La ragazza con la Leica, è la descrizione di una foto scattata da Gerda, ritrae una coppia di miliziani che in qualche modo ricordano lei e Robert, la foto coglie l’attimo preciso della risata dei due che, nonostante il fucile poggiato di fianco a lui, sembrano aver scordato la morte che li circonda. Sarà così anche per lei e Capa, si abbandoneranno alla passione, faranno propria quella stagione di lotta e di anarchia.

Death in the making, è il titolo di una selezione di immagini che Capa scattò insieme a Gerda e che pubblicò circa un anno dopo la sua morte con una dedica: “A Gerda, che trascorse un anno in Spagna. E rimase lì per sempre”.
Allora a Gerda, all’amore che ha saputo seminare, al coraggio con cui ha vissuto fino alla fine:

«è troppo pericoloso restare qui», le disse quel giorno Ted Allan a Brunete «Sai cosa dice sempre Robert? Se la vostra fotografia non è buona, è perché non eravate abbastanza vicini», così gli rispose. Poco dopo, mentre continuava a scattare foto, cadde dal predellino dell’auto a cui era attaccata e venne stritolata da un carro armato. Tutti, chi più chi meno, incolparono Capa di non esserle rimasto accanto in Spagna, lui stesso vivrà con questo rimorso ma io mi sono fatta l’idea che Gerda, in ogni caso, avrebbe fatto quel che voleva.

Un lungo reportage quello di Helena Janeczek, è anche questo il suo raccontare, è un caleidoscopico viaggio in una Parigi ancora scossa da ideali, è il punto di vista che Helena ci restituisce dopo un lavoro durato sei anni, tanto è stato il tempo impiegato a scrivere questo libro, a raccogliere materiale e a dare alla storia, alle storie, la sua impronta.

The greatest war-photographer in the world: Robert Capa, così titolò il Picture Post e la foto che ritraeva Capa spavaldo, il profilo accorpato ad una cinepresa, era una foto che Gerda gli aveva scattato sul fronte di Segovia, mentre giravano le riprese per il Time-Life, il più grande fotografo di guerra senza una macchina fotografica. Mi piace chiudere il cerchio di questa storia così, ricordando Gerda Taro con la foto che celebrò il suo uomo.