“Der Kaiser von Atlantis”, un’opera breve ma densissima e bellissima, fu scritta dal poeta Peter Kien e messa in musica da Viktor Ullmann nel tristemente noto campo di smistamento, anticamera della definitiva deportazione. Gli allievi del Conservatorio l’hanno eseguita sabato scorso a coronamento del festival 2023 di Milano Musica
L’imperatore di Atlantide dichiara guerra. Di più, dichiara La Guerra. Di tutti contro tutti. Però, è strano, in questa annunciata ecatombe dell’umanità non muore nessuno. Nemmeno un condannato all’impiccagione, che un’ora dopo essere stato appeso al cappio è ancora vivo. E anche mezz’ora dopo essere stato fucilato, così, per sicurezza, resta in buona salute. In questo mondo a rovescio, accade che la Morte, offesa per essere stata esautorata del suo libero arbitrio e decisa a non farsi serva cieca del Kaiser, decide di incrociare le braccia. Non andrà a visitare nemmeno l’ultimo soldatino. Devi tornare assolutamente, ordina il Kaiser. Se non muore nessuno, che ne sarà del mio potere? E pensare che l’imperatore di Atlantide – ma anche dittatore di una sfilza di luoghi simbolo, da Ravenna a Gerusalemme – ha ben organizzato il suo dominio sugli esseri umani. Si è chiuso in un palazzo senza finestre, per non rischiare di essere influenzato dalla vita e dalla vista dei suoi sudditi. Ha perfettamente congegnato la macchina per governare il suo regno senza confini: mai una parola deve uscire da lui, solo “Der Trommler”, il Tamburino, è autorizzato a correre per le terre lanciando proclami, e “Der Lautsprecher”, l’Altoparlante, a impartire gli ordini ai generali, ai giudici e perfino ai medici. Il Rifiuto della Signora in nero non era previsto. Che cosa devo fare perché tu torni, Morte? Devi essere il primo a morire. Scacco matto al Re. Costretto a stringere il patto, anche se “non riesco a capire perché l’umanità meriti questo”, lamenta l’imperatore, che, si sa, è di una specie con logica tutta sua. Ma sappi che non hai vinto per sempre, Morte. Questa non sarà l’ultima guerra. Qualcun altro verrà dopo di me.
Peter Kien (1919, Varnsdorf – 1944, Auschwitz)
Una simile storia lascia sgomenti, soprattutto oggi. L’ha pensata un ventiduenne, che però non è un millennial. Si chiama Peter Kien, nato in Boemia nel 1919, e non sopravvissuto nemmeno un anno alla sua invenzione tragica e profetica (morì ad Auschwitz nel 1944, per mano di un Kaiser cui la morte sfortunatamente non riuscì a dire di no).
La storia, Peter Kien la riversò nel libretto di un’opera che fu musicata da Viktor Ullmann nel ghetto di Terezin, anticamera di più definitive deportazioni. L’opera si intitolava appunto Der Kaiser von Atlantis, sottotitolo Il Rifiuto della Morte, provata e quasi allestita nel campo di concentramento prima di essere fermata dalla censura dei nazisti, accortisi all’ultimo che qualcosa non andava.
Nei piani di Goebbles, Terezin doveva essere la vetrina in cui la Comunicazione del Terzo Reich intendeva far passare l’immagine bella di un regime che concedeva ai prigionieri di fare cultura in libertà, altro che repressione. Artisti di ogni genere erano lì concentrati per simulare questo inganno al mondo (suona nuovo?), tra questi Viktor Ullmann, nato anch’egli in Boemia (1898), compositore perfettamente attrezzato, per un po’ allievo di Schönberg, assistente di von Zemlinsky, ammiratore di Berg, direttore attivo anche a Zurigo nel mettere in scena spettacoli trasversali. Ullmann condivise con Kien la stessa sorte: morì ad Auschwitz nel 1944, a quarantasei anni. Il manoscritto di Der Kaiser von Atlantis sopravvisse per caso, consegnato di nascosto nelle mani di un sopravvissuto di Terezin, così da lanciare al mondo un messaggio di forza inaudita. (Ma senza quel colpo di fortuna sarebbe perito insieme ai suoi autori).
Der Kaiser von Atlantis è un’opera breve (meno di un’ora), densissima e bellissima, paradossalmente leggera nel lanciare il suo messaggio. Sette i personaggi: il Kaiser Overall (baritono), l’Altoparlante (basso), la Morte (Der Tod, secondo basso), un tenore nel doppio ruolo di Arlecchino e Un Soldato, Bubikopf (soprano) e Der Trommler (il Tamburino, mezzosoprano). Le voci si distendono libere tra canto impostato e declamato. L’orchestra che Ullmann poté mettere insieme nel campo di Terezin era piccola ma incredibilmente varia: cinque archi (due violini, viola, violoncello e contrabbasso), flauto, ottavino, oboe, clavicembalo, pianoforte, armonium, tromba e (attenzione) clarinetto, banjo, chitarra e sax.
Viktor Ullmann (1898, Český Těšin – 1944 Auschwitz)
La musica che Ullmann fa scattare da questo gruppo da camera è incredibilmente diretta e ficcante: pochi o nessun segno di Schönberg, se non nel sapere armonico, qualcuno per via di Berg, ma molti, molti di più che scendono da Weill e Křenek. La spia che Ullmann conoscesse bene e amasse quell’arte degenerata fatta dai neri d’America nota come Jazz, ben diffusa a Berlino, furiosamente messa fuori legge da Goebbels, è in quel banjo, in quel sax e nel clarinetto al profumo di klezmer. Der Kaiser von Atlantis è cugina prima dell’Opera da Tre soldi e della Mahagonny di Kurt Weill (con cui corre qualche similitudine brechtiana), di Jonny spielt auf di Ernst Křenek, che Ullman aveva diretto insieme a molte operine leggere, fortemente contagiate dallo spirito iconoclasta della Germania anni Dieci-Venti. Il personaggio di Arlecchino, simbolo della vita e della libertà di parola, fa da pendant alle diverse maschere della commedia dell’arte italiana che attraversano quegli anni, primo fra tutti il Pierrot Lunaire che Schönberg compose sulla sorta dell’esperienza come pianista all’Überbrettl Kabarett di von Wolzogen. E ci s’infila nel cervello quel Mister Tamburino cui molti anni dopo Robert Zimmerman farà cantare altri messaggi venati di Antico Testamento (traduzione: Bob Dylan).
Perché raccontiamo questa storia quasi sepolta nella storia? Perché Der Kaiser von Atlantis è tornata a vivere, pur solo in forma di concerto, come ultimo appuntamento di Milano Musica, sabato 10 giugno, cantata ed eseguita (benissimo) da allievi del Conservatorio nella Sala Grande. Tutte a posto le voci: Joaho Koo, Federico De Antoni, Stefano Paradiso, Zhiqia Zhang, Maria Eleonora Caminada, Julija Samsonova. Solo cose buone dai quindici strumentisti tenuti insieme da Valentina Rando. Evidentemente i ragazzi si riconoscono nella lingua di Ullmann e nella parola di Kien.
I giovani interpreti del Conservatorio di Milano
Il progetto, di Vittorio Parisi, è il gioiello finale di un festival che Milano Musica può mettere in cornice come uno dei migliori nei suoi trentadue anni di vita. Dal mazzo si possono estrarre diverse carte vincenti: i quattro quartetti dell’inaugurazione al Pirelli HangarBicocca (5 maggio), il concerto dell’Orchestra Sinfonica della Rai in Scala (7 maggio), il geniale Metropolis di Fritz Lang sonorizzato dal vivo da Edison Studio (11), i sempre deliziosi Percussionisti di Strasburgo all’Elfo (15), Ausstrahlung di Bruno Maderna all’Auditorium di Milano (18), il ciclismo “free” di Kagel alla Fabbrica del Vapore (28 maggio), il canto di Ligeti e Márton Illés esaltato dal SWR Vokalensemble alla Scala (31 maggio).
Il prossimo festival 2024 tornerà alla formula monografica, con al centro un autore (Francesco Filidei), ma dopo questa esperienza sarà difficile chiudere il ventaglio delle indagini e delle sorprese che il pubblico chiede a un festival di musica contemporanea e di cui Milano ha sempre bisogno.