Un viaggio nel tempo ora che il nostro tempo sembra sospeso. Giuseppe Scaraffia firma ‘L’altra metà di Parigi’ per rendere giustizia alla rive droite e raccontarne in una sorta di coltissimo diario intimo i suoi protagonisti
Cosa c’è di meglio oggi, nella dismisura cronologica della chiusura domestica, che rilanciare un viaggio nel tempo? L’occasione ghiotta, dopo innumerevoli tour fatti col cinema fantastico, viene offerta da un libro curioso, divertente e informatissimo, L’altra metà di Parigi scritto da Giuseppe Scaraffìa, torinese che vive a Roma e insegna letteratura francese alla Sapienza. Viene in mente il 42mo, stupendo film di Woody Allen Midnight in Paris in cui il nostro a mezzanotte veniva introdotto in carrozza dalla macchina del tempo nella Parigi anni ’20, incontrando così Zelda e Francis Scott Fitzgerald, il focoso Hemingway, Gertrude Stein e infine anche Bunuel che racconta l’inverosimile soggetto di L’angelo sterminatore che sarà nel ’62 uno dei suoi capolavori.
Scaraffìa, come un detective di quegli anni jolly, folli e irripetibili, ci porta a zonzo a brindare, negli hotel (il Ritz la fa da padrone con la famosa cena in cui si incontrarono e non si dissero una parola Joyce e Proust) e nei café, nei salotti di persone-personaggi di chiara fama dandy ma non solo. Si va da Proust (chi l’avrebbe detto che desiderava provare il cinema?) ad André Gide, da Colette a Dalì, dai già citati Hemingway e Fitzgerald, da Picasso alla onnipresente musa del periodo Misia Sert, da Malraux a Montherlant, dalla Sackville-West a Zweig (che metterà tutto sul suo conto suicidandosi) a Saint-Exupèry, dal brutto e malvestito Sartre già con la bella De Beauvoir a Satie; ospite d’onore Raymond Radiguet, aurore del Diavolo in corpo, morto giovanissimo dopo un devastante amore con Cocteau, infine Walter Benjamin e il mondano abate Mugnier, confidente e confessore dei salotti bene, un Truman Capote che ha preso i voti.
E poi James Joyce, citatissimo per i grovigli familiari con la figlia nevrotica che manda in cura da un certo dottor Jung: “Pensare che uno svizzero materialista grande e grosso come lui dovrebbe cercare di mettere le mani sulla mia anima!”. E Beckett che di Joyce fu aiuto e fattorino tuttofare, anche se su Joyce e la sua vita parigina dice moltissimo Shakespeare and company di Silvia Beach , storia della storica libreria di un’americana a Parigi che fu la prima a pubblicare l’atteso Ulisse nel 1922 con una specie di crowfunding e mille copie di tiratura. E poi si parla di Maurice Sachs, scrittore maledetto (1906-45) ebreo e omosessuale, dotato di molto “pride”, segretario di noti amanti intellettuali e alla fine, ahimè, spia collaboratore della Gestapo: lo citiamo perché è uscito di recente un libro parallelo a quello di Scaraffìa, Ai tempi del Boeuf sur le toit, di Sachs, storia del celebre cabaret parigino in cui si ritrova tutta l’avanguardia tra le due guerre, mirando agli anni tra il 1919 e il 1929, quando il crollo di Wall Street frenò anche gli impulsi e le ribellioni dei molti americani a Parigi prima che Gene Kelly inventasse il musical.
L’altra metà di Parigi ha un plus valore di segreto “diario intimo” collettivo che parte dal rendere dopo anni giustizia alla rive droite, sottostimata rispetto alla rive gauche di Montparnasse, nonostante avesse dalla sua parte il Palais Royal, il Louvre, l’Opèra, moltissimi teatri e i grandi boulevard della borghesia, strade di diseredati come la poetessa Marina Cvetaeva ed Henry Miller, benestanti come Proust e Gide e di molti rivoltosi cervelli. La cosa davvero bella è che tutta questa grande compagnia di giro dell’arte e della letteratura formava una specie di famiglia (come il cinema italiano anni 50), di parenti serpenti, ma anche pronti alla condivisione (di whisky, champagne, oppio…) e solidali di fronte ai “posteri” in nome dell’avanguardia e di quella specie di grande profezia culturale che fu la Parigi di allora. Il libro, che Arbasino avrebbe adorato perché baciato dal dono della profonda leggerezza, rivaluta dunque una parte della città ed è diviso in capitoli che sono la reale toponomastica parigina con i 19 arrondissement percorsi strada per strada, locale per locale.
Una marea di meravigliose annotazioni che rivelano (come già in I piaceri dei grandi ), il gusto dell’autore di mescolare grande e piccolo, le altezze vertiginose della poesia e le bassezze delle ubriacature violente con match di boxe, la tenuta e l’abbandono della ragione. Sono i caratteri d’una offerta speciale di “gossip” culturali che perdono la natura di gossip diventando parte di una storia sociale culturale mai scritta con questo humour e questa ricchezza di informazioni. Sapere qualcosa di intimo di Joyce o Sartre o di chiunque altro, non è un pettegolezzo perché tutto rientra in una storia di grandi uomini che hanno lasciato eredità massime e di cui conosciamo così meglio certi caratteri, particolarità ed esigenze che riconosciamo poi nelle opere. Sono le glosse, le note dei fattori umani.
Impossibile fare un elenco delle sorprese cui andiamo incontro nella lettura che è piacevolissima ma non futile. Si va dal famoso bordello omosessuale frequentato da Proust e in parte arredato coi vecchi mobili di casa da lui regalati (e dove spiava i giochi sadomaso del barone di Charlus, vedi Recherche e il libro di Stanza 43 di Mario Lavagetto con la storia del famoso lapsus), al viaggio en travesti della Sackville-West, la fuga della Yourcenar con un’amica che non lascerà più, le serate dada a teatro (i balletti russi con Djagilev e Nijinsky), Von Orvàth morto giovane perché decapitato dal tronco di un albero e poi ancora il genio della letteratura americana Thomas Wolfe ma anche Charles Trenet, la costanza della ragione del grande donnaiolo Simenon e le orge di Edoardo VII in libera uscita regale, Beckett che scappa con la Guggenheim e così vive oh le beaux jours, Orwell che faceva il lavapiatti, un andirivieni vertiginoso.
La storia più bella presa da I piaceri dei grandi è questa: quando Gide, emblema dell’omosessualità culturale morì, un burlone mandò al cattolico Mauriac, che aveva represso le sue analoghe inclinazioni, un telegramma che fece ridere tutta Parigi: “L’inferno non esiste STOP puoi divertirti STOP avverti Claudel. Firmato: André Gide. Una miniera di “pettegolezzi” d’alto bordo da 1919 al 1939 in un libro coltissimo che mette i grandi del secolo scorso in fila indiana di fronte al mito, una cartina geografico intellettuale che arriva alla grande Storia partendo dalle piccole storie nel ricordo di molte serate non astemie, ma che coltivavano la settecentesca e illuministica arte della conversazione.