Rinasce il western grazie ai Coen e al gran trio Phoenix-Gyllenaal-Reilly e il biopic con la firma di Peter Bogdanovich. Molti titoli oltre le due ore e mezza (troppo, a volte), da Mel Gibson a “Monrovia, Indiana”. L’Italia di Guadagnino-horror, il cinema di denuncia (Caso Cucchi e Mike Leigh), lo storico Martone, il rilancio alla grande di Lanthimos. Netflix alimenta la polemica, ma anche il film di qualità, la Rai la cultura con la bella serie su Elena Ferrante. Corrode l’umorismo del palestinese Zoabi
A conti quasi fatti, a titoli quasi confessi, a Leoni quasi dati e si sente che sbraitano per uscire dalla gabbia, tenuti dalla giuria di Del Toro, ecco un mini alfabeto veneziano n.75, mentre “Transylvania 3” incassa mezzo milione al giorno.
A
Audiard, nel senso di Jacques, regista parigino classe 52 (Il profeta, Sapore di ruggine e ossa) si trasferisce in un finto Oregon, paesaggio western, firmando una delle rivelazioni più divertenti, Sisters brothers, titolo gender per due bounty killer sulle tracce di un cercatore d’oro e di un amico. Due coppie virili e un’appassionante storia di odio amore e così così. La conferma di Phoenix, Gyllenhaal e del grande John C. Reilly, cellophan man di Chicago, che mangia il film e sembra passi lì per caso.
B
Bogdanovich. Nel senso di Peter, enfant prodige della regìa con Ma papà ti manda sola? e L’ultimo spettacolo, ci ha ricordato il suo amore per il cinema classico con un doc bio movie su Buster Keaton e appare nell’incompiuto film di Orson Welles The other side of the wind, il suo 8 e mezzo.
C
Coen, per sempre. Joel ed Ethan in The ballad of Buster Scruggs rianimano il western con un’operazione vintage intelligente, sei episodi su sei situazioni classiche del genere, ma con innesti geniali come l’attore freaks e gli ultimi 15 minuti che sembrano baciati da Poe: capolavoro.
D
Doubles vies, doppie vite, ma speriamo cambino il titolo per l’Italia: andrebbe bene Non drammatizziamo è solo questione di corna se non fosse già di Truffaut. Il nuovo film di Olivier Assayas è francese che di più non si può: salotti intellettuali, editori che parlano del mondo virtuale e di e-book mentre tutti si tradiscono. Impressione d’esser dentro nel mondo: come siamo moderni e intelligenti. Ma il godimento è grande. La Binoche è più Binoche di sempre
E
E perché non fare film che durino 90 minuti, come diceva Hitchcock citando la sua prostata? Una stagione di lunghezze paradossali, perfino A star is born supera i 130 minuti. Suspiria i 152, Dragged across concrete i 158, col redivivo Mel Gibson, un buddy buddy poliziesco di rara originalità con due poliziotti corrotti che invece di inflazionarci con fuck e ass, parlano in understatement come Allen e Simon. Nemes, delusione, un finto Schnitzler che più finto non si può, 142 minuti ma non si capisce mai niente, solo che l’impero austro ungarico non poteva sopravvivere alle sue modiste, E Monrovia, Indiana di Wiseman, 143 ma lui è perdonato d’ufficio, fino a Never look away che arriva a 188 minuti, cui si aggiunge il tempo per il cognome del regista, Florian Henckel von Donnesmarck.
F
Come furor di popolo. Il film sul caso Cucchi Sulla mia pelle, con uno strepitoso Alessandro Borghi in performer mimetica alla Volontè, ha avuto sette minuti di applausi in sala. Voleva dire grazie per il film, per aver sollevato il velo su un episodio vergognoso, ma anche per qualcosa d’altro, per averci fatto vedere uno spiraglio di luce in tempi oscuri, repressi. E se Cucchi fosse stato migrante?
G
Luca Guadagnino, of course. La star annunciata, red carpet in vestito rosso, il film Suspiria che non è horror e non è remake di Argento, ma se mai vorrebbe esserlo di Pasolini.
H
Hey, come va? Un salutino non si nega a nessuno lungo la promenade Excelsior-Palazzo. Ma in quanti si riconoscono?
I
Impegno: ogni tanto si vede, anche nell’ombra, anche in metafora, anche telefonato. Ma soprattutto i titoli dal Sud America sottintendono ancora dittatori e orrori. Nel mezzo della mostra la fake new che era morto Costa Gavras che questi orrori li ha denunciati più di ogni altro. Il film più impegnato anche se un po’ vintage è Peterloo di Mike Leigh – assonanza non casuale con Waterloo – cioè quando Giacomo II fece arrivare la guardia armata in piazza.
J
Ovvero Jinpa di Pema Tseden, un road movie spirituale tibetano non proprio adrenalinico ma che riserva una sorpresa: il camionista protagonista non fa che ascoltare O’ sole mio in una cassetta audio italiana.
L
La Favorita: essendo un film di Yorgos Lanthimos, il cui Lobster è indimenticabile per ambizione pari alla noia, si temeva il peggio. Invece, scritto da altri, la sua cronaca di palazzo della regina Anna è fra i regali più spiritosi, e le tre attrici a corte, la regina e le sue due favorite, sono in pista di lancio per la coppa Volpi, anche se tutti pensavamo a Bette Davis, la Crawford, la Hepburn…
M
Come The Mountain di Rick Alverson, il film più molesto e ambizioso e fastidioso della Mostra. Quello contro cui tutti sparano a zero: la commissione che l’ha scelto non c’era, se c’era dormiva, se dormiva avrà avuto sicuro un incubo. A pari merito per noia molesta ed ambizione sfrenata e mal riposta si piazza Vox lux di Brady Corbet dove Natalie Portman fa ancora una volta la rockettara ripiena di alcol, droghe e complessi: bisogna capirla, è anche al centro di numeri coreografici che neanche Domenica in negli anni 80…
N
Netflix, il tormentone del Lido, ereditato da Cannes. I film migliori, da Cuaron ai Coen, arrivano dalla piattaforma che forse li farà circolare prima nelle sale. Una disputa inutile. Ma a Milano ci sono i poster “Basta Netflix”, sospetti di essere promozione omeopatica.
O
Olmi. Il caro Olmi, che a Venezia era di casa perché nella sezione informativa del ’61 fu Il posto il titolo rivelazione. E che sia tornato quest’anno nella sezione del recupero è stato bello e importante, così come La notte di san Lorenzo dei Taviani: applausometro al top.
P
Passato. La poetica della memoria in bianco e nero trionfa nel film autobiografico di Cuaron Roma, il rione borghese di Città del Messico dove abitava. In un cinema di quartiere vive Marooned, Abbandonati nello spazio, che gli diede ispirazione per Gravity. C’è la grazia del ricordo, sembra un po’ Camilla di Emmer, si resta invischiati dentro, siamo ancora ostaggi in quella casa.
Q
Quando ci sarà il nuovo Palazzo del cinema? Nessuno lo chiede più.
R
Rai1, piazza un bel colpo. Si sono viste le prime due bellissime puntate dell’Amica geniale della Ferrante, in onda a fine ottobre (ma su TimVision come e quando?). Un Costanzo Saverio travestito da Comencini Luigi ha scoperto due ragazzine fantastiche e ha ricostruito, a cavalcioni tra realismo e memoria, l’Italia fine anni 40.
S
Epochizziamo su Suspiria, in attesa di rivederlo. Ma la battuta dello psicanalista che dice nel ’77: vado a sentire una conferenza di Lacan, è di quelle super cult.
T
Tel Aviv on fire: uno dei film più divertenti del Lido, regista il palestinese Sameh Zoabi, che irride al potere mediatico delle serie e mette tra parentesi (per modo di dire) il conflitto con Israele. Si ride tanto e senza vergognarsi.
U
Unknown, attendiamo per Martone in quel di Capri. Ma al Lido anche Servillo col film sulla preparazione di Elvira
V
Visconti, nel senso di Luchino. E dove se non qui, a due passi dal fu Des Bains, la versione restaurata di Morte a Venezia?
W
Wiseman, il più grande documentarista. Non ha il dono della sintesi, o meglio ce l’ha ma a modo suo. Ci tiene per quasi tre ore a raccontarci una giornata tipo del paese di Monrovia (sembra di Lubitsch), nell’Indiana, dove ci sono vizi e virtù, peccati veniali e mortali degli americani. Una piccola città, ma armata. Cose curiose, i fratelli massoni, squarci poetici di grano e poster minacciosi: ieri tra i 680mila (la cifra è alta ma non la ricordo) nessuno ha sparato. E non è ironico.
Z
Zip, la cerniera si chiude. Da domenica mattina il Lido sarà deserto. Brani di poster nel vento. Chiusa retorica.