Parigi anni ’90, si muore di Aids ma c’è chi dice no: il racconto di Campillo da Cannes verso l’Oscar

In Cinema

La “peste di fine millennio” fa strage anche in Francia di omosessuali, prostitute, tossici. Così i “pédé” fondano Act Up, movimento molto agguerrito che sfida il governo pavido e le industrie farmaceutiche rapaci, poco interessate alla vita dei malati. In “120 battiti al minuto” Robin Campillo, che è stato in quei tempi tragici militante di Act Up, ricorda conflitti e amori, dibattiti e scontri, decessi e vittorie di una generazione che riprodusse il ’68 avendo un obiettivo ancor più pressante, sopravvivere a una malattia quasi invincibile. Gran Prix della Giuria sulla Croisette, già scelto dai francesi come loro candidato forte alla statuetta, il film accumula coi suoi ritmi concitati Storia e storie, emozioni sentimentali e battaglie civili, musiche d’epoca e attori eccellenti, come Nahuel Pérez Biscayart

C’era una volta… Così cominciano le favole, qui invece si parla di realtà, di morti, di Hiv e Aids. Perché non è vero che si tratti di un’epidemia che c’era una volta: c’è ancora. Compie disastri, oggi. Un po’ meno devastanti nei paesi più ricchi, ma purtroppo pesantissimi in alcuni africani, e la trascuratezza informativa sta facendo rialzare la testa al virus. Che oggi però è almeno più contrastabile. Il film di Robin Campillo 120 battiti al minuto ci riporta ai primi anni ’90, quando a Parigi un gruppo di attivisti crea Act Up, filiazione francese di un’associazione nata già da un paio d’anni negli Stati Uniti, il cui compito è stanare, combattere le inerzie politiche, mediche, educative. Il tutto con iniziative non violente ma eclatanti e creative.

All’epoca Campillo era un giovane che aveva aderito ad Act Up, ritrovando in quel gruppo senso e gioia di vivere. Perché l’indifferenza non era solo sociale: anzi, il fatto che i soggetti più esposti al rischio di contagio fossero omosessuali e tossici veniva letto da molti come una sorta di nemesi. Così decide di raccontare quella storia che ha vissuto in prima persona all’insegna dello slogan silenzio=morte. Ci porta alle riunioni in cui si decidono le strategie, in cui si litiga, si discute, si milita, ma ci si innamora anche, si cuciono rapporti temprati dalla situazione. Ma soprattutto si agisce. A base di palloncini riempiti con liquido rosso che simula il sangue, e spaventano molto quando lanciati esplodono inzaccherando. Ne sono spaventati anche i poliziotti, che quando devono trasportare qualche militante pacificamente sdraiato a terra lo fanno con i guanti di lattice, perché temono di essere contagiati. E ancora assistiamo a un’irruzione in un liceo dove regna l’ipocrisia, quando addirittura non è arrogante ignoranza.

Sappiamo poco della vita dei personaggi, non è questa la chiave del film, sappiamo e vediamo le iniziative che intraprendono, spesso clamorose, conosciamo l’amore tra il neofito Nathan e Sean, sempre più segnato dalla malattia. Seguiamo i nostri anche in discoteca, presentato come un luogo deputato a mostrare la voglia di vivere, magari con le note di Small Town Boy dei Bronski Beat. Così si arriva ai 120 battiti al minuto, alla frenesia, all’eccitazione nei confronti di una vita che sembrerebbe così precaria nella comunità gay, lesbica e tossica di quegli anni. Campillo rilegge tutto questo, ma il suo coinvolgimento è totale, al punto che se non si viene risucchiati emotivamente dal suo racconto, non scatta la molla. Le situazioni si ripetono con poche varianti sino al lungo finale, che invece punta tutto sulla compassione dettata dalla situazione narrata.

A Cannes, oltre al gran premio della giuria, il film ha ottenuto recensioni entusiaste e la Francia lo ha candidato come suo titolo per l’Oscar al miglior film straniero. Un coro di elogi e di entusiasmo che sembra più legato all’argomento trattato che al film stesso. Il film nasconde anche un piccolo giallo: la versione circolante in Italia dura quasi una decina di minuti in più rispetto a quella presentata sulla Croisette (se i dati riportati sono esatti). Di solito succede il contrario, dopo la presentazione festivaliera i film vengono rifiniti con qualche taglio che li rende (spesso) più fruibili. In questo caso, invece, c’è una versione più lunga, che arriva a due ore e ventiquattro minuti. Troppi, nonostante la bravura di Nahuel Pérez Biscayart, nei panni di Sean, e degli altri interpreti, da Arnaud Valois (Nathan) a Adéle Haenel (Sophie) a Antoine Reinartz (Thibault).

 

120 battiti al minuto, di Robin Campillo, con Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Adèle Haenel, Antoine Reinartz, Félix Maritaud 

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