La musica che gira intorno/5

In Musica

Tuffatevi nella scelta ricchissima di segnalazioni di album, nuovi e ristampe, e di eventi della settimana sulla piazza milanese. C’è solo l’imbarazzo della scelta dal nuovo CD di Suzanne Vega all’interessantissimo Nicolas Jaar, dall’imponente operazione di remastering dei Rolling Stones alle opere di Gérard Grisey, compositore sul quale è in corso il festival di Milano Musica

Blood Orange – Hadron collider/ Augustine/ Hands up
Alla ricerca di nuovi paesaggi sonori, mi imbatto in Blood Orange, compositore e cantante sinuoso, modernista con giudizio. Lui in realtà si chiama Devonté “Dev” Hynes, è nato a Londra nel 1985 da genitori originari della Sierra Leone, e da una decina d’anni ha fatto tana a Brooklyn. Esperienze giovanili nella dance-punk e nel giro alt-folk dei Bright Eyes, dal 2009 è Blood Orange: elettronica soffice, ritmiche di altre latitudini, un funk intimo e un rhythm & blues che profuma di anni ’80. Compositore anche per altri, per lo più donne (Solange, Florence + The Machine, Kylie Minogue, ma anche Chemical Brothers), vicino al movimento Black Lives Matter (da ascoltare lo spoken word dello scorso anno Do you see my skin through the flames?, *****, lo trovate qui, ha pubblicato di recente lo splendido Freetown sound (****1/2). Le atmosfere musicali sono quelle che ho detto, io ci trovo persino un pizzico di Steely Dan, ma a fare la differenza è il tono sereno e l’emotività misurata, il fascino fluido di un discorso maturo che sa fare i conti con la realtà del nuovo razzismo bianco senza lasciarsene travolgere. Love ya vede l’intervento del più autorevole intellettuale nero del momento, Ta-nehisi Coates, Hands up ricorda l’assassinio dell’adolescente inerme Trayvon Martin in Florida. Ospiti femminili in stato di grazia: tra le altre Deborah Harry dei Blondie in EVP e una sorprendente Nelly Furtado in Hadron collider.

 

Nico Sambo – La stazione/ Lo sai che…
Quarto disco per il livornese Nico Sambo, (Ognisogno, ***1/2, con canzoni spesso da ****), tra morbidezze pianistiche, tentazioni noise, i suoni naturali del field recording, riverberi, qualche asprezza new wave. Tema ispiratore, il viaggio fra tentazione e incubo, fuga e falso movimento (La stazione, ma anche Eurasia). E l’odiosamata Livorno di Santa Giulia e Lo sai che… con l’eco di Piero Ciampi. Malinconico, ben cantato e molto ben suonato e prodotto.

 

Suzanne Vega – New York is my destination/ Annemarie
All’origine del nuovo lavoro dell’amatissima Suzanne Vega, Lover, beloved: songs from an evening with Carson McCullers (****), c’è una lunga fascinazione, che già nel 2011 sfociò in uno spettacolo off-Broadway, per la scrittrice Carson McCullers (1917-1967), donna dalla vita infelicissima ed esponente di spicco con Flannery O’Connor di quel “gotico sudista” che avrebbe ispirato molti dei grandi registi americani (Il membro del matrimonio di Fred Zinnemann, 1951, Riflessi in un occhio d’oro di John Huston, 1967, con Brando e la Taylor). Prodotta da Gerry Leonard (David Bowie), Suzanne Vega si muove tra atmosfere jazzate (Carson’s blues, Harper Lee, The ballad of Miss Amelia) e ballate pianistiche di elegante, sinuosa sensualità (Annemarie, Lover beloved). All’altezza delle sue prove migliori.

 

Paolo Conte – Pomeriggio zenzero/ F. F. F. F./ En bleu marine
Paolo Conte (*****) al Teatro degli Arcimboldi l’11 e il 12 novembre, ed è detto (quasi) tutto. Resta da aggiungere che, oltre al repertorio di una vita, farà con ogni probabilità la parte del leone il nuovo album strumentale Amazing game, del quale ho già parlato. Ecco tre assaggi.

 

Charlie Haden – Blue in green /El quinto regimiento
A due anni dalla scomparsa di Charlie Haden, maestro e poeta del contrabbasso, la Impulse pubblica Time/Life (****1/2), che prosegue l’avventura della meravigliosa Liberation Orchestra. Haden l’aveva creata nel 1970 per aprire gli orizzonti del grande ensemble a quella che ancora non si chiamava world music, rivisitando per esempio alcuni canti della guerra civile spagnola (qui sotto potete ascoltare El quinto regimiento, *****) e accogliendo nelle sue fila tra gli altri Carla Bley, Don Cherry, Roswell Rudd, Gato Barbieri, Dewey Redman e Paul Motian. In Time/Life, che raccoglie due esecuzioni dal vivo del 2011 ad Anversa e tre registrazioni in studio del 2015, il grande Haden compare soltanto nei brani live. Una liricissima Blue in green di Miles Davis e Bill Evans (Kind of blue, 1959, *****), con un assolo di basso magistrale, e una Song for the whales scritta dallo stesso Haden in cui il contrabbasso emula il canto stridulo delle balene, per cedere il passo al collettivo di ottoni e sax. Le notevoli registrazioni di studio (Time/Life, Silent spring e Utviklingssang) sono invece firmate dalla pianista Carla Bley, che guida l’orchestra.

 

Elvis Presley – In the ghetto/ Suspicious minds
Proprio in questo novembre, 47 anni fa, Elvis Presley conquistava il primo posto in classifica per l’ultima volta. La canzone era Suspicious minds (***1/2), preceduta in maggio da In the ghetto (****, terza in classifica) e seguita in dicembre da Don’t cry daddy, ***, soltanto sesta. Dopo un lungo periodo di attività soltanto cinematografica, Presley aveva ripreso a incidere a buoni livelli verso la fine dei ’60, questi sarebbero stati gli ultimi fuochi. Suspicious minds è rispuntata come singolo nell’ultimo mese, anticipando il solito album natalizio. Intanto è appena uscito The wonder of you: Elvis Presley with the Royal Philharmonic Orchestra (**1/2). Ad alto tasso zuccherino, potete tranquillamente saltarlo e continuare la dieta.

 

Michael Kiwanuka – Love & hate
Londinese di origini ugandesi, classe 1987, Michael Kiwanuka ha fatto nel 2012 un esordio molto lodato, Home again. Con il secondo album, Love & hate (***1/2), mette a fuoco la sua personalissima miscela che pesca a piene mani dal soul più classico degli anni ’60 e ’70. Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Bill Withers sono influenze riconoscibili, come lo è il canto prossimo al pianto strozzato che ricorda Otis Redding, per non parlare delle soluzioni orchestrali alla Isaac Hayes e alla chitarra che, in alcuni brani, fa venire in mente i Funkadelic. Soltanto un collage, allora? No, perché riscatta il tutto un’urgenza espressiva da “brokenhearted” forse ancora un po’ acerba ma senz’altro promettente. In concerto al Fabrique il 13 novembre.

 

Drive-by Truckers – Ramon Casiano/ What it means/ Guns of Umpqua
Uno “stato dell’Unione” in musica. Un album politico senza slogan, di narrazione potente e diretta, che affronta da una prospettiva liberal la “questione meridionale”: l’alienazione, il risentimento, il razzismo endemico dei lavoratori bianchi del Sud degli Stati Uniti che gonfia le vele di Donald Trump. È American band (****), tredicesimo lavoro dei Drive-by Truckers di Athens, Georgia, concittadini dei R.E.M. Nessun orgoglio: la bandiera a stelle e strisce della copertina è a mezz’asta. E il southern rock alla Lynyrd Skynyrd qui è rovesciato per contestare le nostalgie confederate (Surrender under protest) e il vano crogiolarsi nell’identità sudista (Ever South). Per fare i conti con una società violenta che tollera l’uccisione dei neri (“Se dici che non era razzismo quando gli hanno sparato/ be’, immagino che voglia dire che non sei nero”, What it means) come ieri tollerava quella dei messicani (Ramon Casiano, un quindicenne ucciso nel 1931 dal capo della polizia di confine Harlan Carter, che non fu mai processato e diventò presidente della National Rifle Association, trasformando un’associazione di cacciatori in una lobby di destra) e che continua a produrre stragi (Guns of Umpqua, racconta dal punto di vista di un suo bersaglio uno sparatore solitario e suicida dopo aver fatto fuori nove studenti e un professore in una scuola dell’Oregon, nel 2015). Ce n’è anche per la corruzione dei predicatori evangelici (Kinky hypocrites) e per il terrorismo usato come pretesto per limitare le libertà civili (Once they banned Imagine, con la lista delle canzoni messe all’indice dopo l’11 settembre). Vibrante ed empatico.

 

Elisa – Bad habits
Parte l’11 novembre a Firenze (sarà a Milano il 25 e il 26) il nuovo tour con cui Elisa porta in giro l’album On (***1/2), in inglese per undici brani su tredici (in italiano Bruciare per te e Sorrido già con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro). Roba da stadi e palasport, musica estroversa e a fior di pelle come mai prima per la cantante friulana, via chitarre e batteria e largo a synth, tastiere e drum machine. Musica da export, in sintonia con il mercato globale (tra i collaboratori gente che ha lavorato con Whitney Houston, Ray Charles e Barbra Streisand, insomma non più di primo pelo ma abbastanza sgamata), piccolo frullato degli stili di oggi e del passato recente, dall’elettronica al trip hop al drum’n’bass, dal funky al soul in salsa Motown. Troppo epidermica per essere my cup of tea, ma piacevole.

 

Cowboy Junkies – Misguided angel/ Sweet Jane/ Blue moon revisited
Ritorna, rimasterizzato e con la copertina pensata per la prima edizione e poi scartata, Trinity session (*****), gemma notturna datata 1988 dei Cowboy Junkies. Canadesi di Toronto, famiglia musicale allargata (i tre fratelli Timmins, Michael alle chitarre, Pete alla batteria e Margo al canto, più il bassista Alan Anton), i Cowboy Junkies distillano il paesaggio sonoro della tradizione americana immergendolo nella nebbia, facendone una musica rarefatta e spettrale, intima e desolata. Il blues e il country come lo avrebbero cantato i Velvet Underground, e infatti Margo Timmins, musa inquietante della formazione, ricorda da vicino Nico, e infatti Lou Reed definisce la loro versione di Sweet Jane “la migliore e la più autentica”. Registrato in un solo giorno, in presa diretta e con un solo microfono, in una chiesa di Toronto, Trinity session inanella composizioni loro (Misguided angel, 200 more miles e altre) e classici come I’m so lonesome I could cry (Hank Williams), Sweet Jane, Blue moon revisited (un omaggio a Elvis Presley) e Walking after midnight (Patsy Cline). Da scoprire o da riscoprire.

 

Lionel Bringuier – Concerto in sol maggiore di Maurice Ravel
È un festival degli enfant prodige, questo monumentale e scintillante Complete orchestral works di Maurice Ravel (****), con la Tonhalle Orchester di Zurigo diretta da Lionel Bringuier. Nizzardo, trentenne, Bringuier ha cominciato gli studi al conservatorio quando aveva cinque anni, per diplomarsi in violoncello e direzione d’orchestra e diventare assistente di Esa Pekka-Salonen alla Los Angeles Symphony Orchestra. Lo affianca nella sua cavalcata raveliana il violinista taiwanese-australiano Ray Chen, 27 anni, che il violino ha cominciato a studiarlo quando aveva quattro anni e ha vinto il prestigioso premio Menuhin: magnifica la sua interpretazione di Tzigane. La seconda solista scelta da Bringuier è la pechinese Yuja Wang, 30 anni, studi cominciati a sei anni, acclamata virtuosa (l’hanno diretta fra gli altri Abbado e Pappano, in concerto ha sostituito all’ultimo momento mostri sacri come Radu Lupu e Martha Argerich), la potete ascoltare qui sotto. Della direzione di Bringuier si ammirano la seduttività giovanile, pienamente rispettosa dell’incantatoria complessità timbrica di Ravel, e la carica di gioiosa esuberanza. Con appena un sospetto di colori troppo brillanti che smorzano, si ascolti l’impeccabile ma non entusiasmante Bolero, i tratti più perturbanti e scuri del maestro francese.

 

Paolo Fresu & Uri Caine – Lascia ch’io pianga/ E se domani/ Dear old Stockholm
Non dovrebbero avere bisogno di presentazione i due. Sardo di Berchidda, lirico ed eclettico, in moto perpetuo e disponibile a collaborare con artisti dei contesti più disparati Paolo Fresu, trombettista di valore assoluto e instancabile organizzatore (il suo festival sardo Time in Jazz è, da oltre vent’anni, un evento internazionale). Americano di Philadelphia il secondo, noto per le sue commistioni di klezmer, elettronica e classica (ha rivisitato tra gli altri, facendo storcere il naso ai puristi, Bach, Schumann, Mahler e le Variazioni Diabelli) e per avere guidato la Biennale Musica di Venezia e il festival jazz di Bergamo. Fresu & Caine, che hanno inciso assieme due album da **** per la Blue Note (Think e Things), suonano il 12 novembre alla Sala Verdi del Conservatorio di Milano. Qui sotto tre gemme del loro repertorio: Lascia ch’io pianga, aria per soprano di Händel; E se domani, Calabrese e Rossi per Mina, anno di grazia 1964; e Dear old Stockholm, tema popolare svedese trasformato in standard jazz da Miles Davis, John Coltrane e molti altri.

 

Nicolas Jaar – The governor/ Three roads to Nazareth/ History lesson
“Possiamo protestare con la musica elettronica?” Se lo chiede Nicolas Jaar, 26 anni, newyorkese figlio di un cileno-palestinese e di una cileno-francese. Già l’anagrafe dà conto della sua elettronica che è una delle migliori world music possibili oggi. Dopo il debutto del 2011 con Space is only noise (****) e numerosi mix, ep, false colonne sonore (una vera l’ha composta per Dheepan di Jacques Audiard, Palma d’oro a Cannes nel 2015) e progetti laterali come i Darkside, pubblica Sirens (****1/2) in cui usa elettronica, ambient e collage sonori per mettere in scena una dialettica dei contrasti: lentezza e velocità, durezza e morbidità, toni minacciosi e soavità. Ne risulta un lavoro intimo e personale, ma con l’impressione di tante persone diverse che convivono. Con impennate post-punk (Three roads to Nazareth), echi sudamericani (No), vecchio doo-wop (History lesson). Musiche spesso accattivanti e quiete, ecco l’ultimo contrasto, per testi comunque non neutri: “Il denaro, a quanto pare, ha bisogno dei suoi lavoratori” (Killing time), “Diciamo sempre no ma il sì è dappertutto” (No, dove il no era quello del referendum cileno del 1988 al macellaio Pinochet per dire sì alla democrazia), “Capitolo 1, abbiamo mandato tutto a puttane/ Capitolo 2, lo abbiamo rifatto ancora e ancora e ancora/ Capitolo 3, senza mai chiedere scusa” (History lesson). Si può protestare con l’elettronica? Lo scopriremo il 24 novembre all’Alcatraz.

 

Bob Lind – I don’t know how to love you/ Elusive butterfly/ Remember the rain
Tutto ritorna, persino Bob Lind, del quale esce Magellan was wrong (**1/2), onesto lavoro di pop-folk che sembra arrivare dal cretaceo, gradevole ma già sentito, che passa in fretta senza lasciare quasi traccia (qui sotto il trailer dell’album). E, a sentirlo, affiora la nostalgia. Fuori combattimento dal 1971 per problemi pesanti di alcol e di droga (ha ispirato a Charles Bukowski il personaggio di Dinky Summers in Donne), autore da allora di romanzi e giornalista da free press per supermercati, Bob Lind è stato tuttavia nei ’60 del secolo scorso un cantautore influente e regolarmente coverizzato in Italia. Il suo più grande successo, Elusive butterfly (nel bellissimo Il senso di una fine di Julian Barnes accompagna l’unico ballo tra il protagonista Tony Webster e la sua ragazza della giovinezza, Veronica Ford), in Italia lo rifecero Milena Cantù e Caterina Caselli. E Remember the rain divenne È la pioggia che va dei Rokes, che già avevano proposto Cheryl’s goin’ home trasformandola nella proto-piagnona Ma che colpa abbiamo noi.

 

Les Percussions de Strasbourg – Le noir de l’étoile di Grisey
Doppio concerto il 12 novembre al Pirelli Hangar Bicocca, nell’ambito della rassegna Milano Musica. Nel primo concerto, alle 18, si esibiscono Marco Danesi al clarinetto, Daniele Richiedei al violino, Paolo Gorini al pianoforte, interpretando musiche di Francesconi, Murail, Grisey, Saariaho, Harvey. Nel secondo concerto, alle 20.30, Les Percussions de Strasbourg eseguono Le noir de l’étoile di Gérard Grisey, maestro dello spettralismo. È una composizione di un’ora (qui sotto l’integrale) per sei percussionisti disposti attorno al pubblico, nastro magnetico e trasmissione di segnali astronomici. Attivi dal 1962 e vocati alla musica contemporanea, Les Percussions de Strasbourg hanno all’attivo oltre 250 esecuzioni in prima assoluta, tra cui lavori di Xenakis e Stockhausen. Il 15 novembre li si può ascoltare, altra prima, mentre eseguono Burning bright di Hugues Dufourt all’Elfo Puccini.

 

Cosmo – Dicembre/ Impossibile
Coniugare il lessico dei cantautori con le sonorità elettroniche. Se lo propone da due album, con qualche aggiornamento musicale ancora necessario (il suo synth-pop non è proprio il massimo della novità), Marco Jacopo Bianchi in arte Cosmo. Nato a Ivrea nel 1982 e fino a qualche tempo fa insegnante di storia in un istituto professionale, già frontman dei Drink to Me, con questo L’ultima festa (***1/2) ha avuto buoni passaggi radiofonici e il suo nome ha cominciato a circolare (appare per esempio nell’album solista di Boosta). Divertimenti agrodolci e agrodolci momenti di vita giovanile, come nei due bei brani che ho scelto.

 

Gregory Porter – Don’t lose your steam/ More than a woman
Californiano di Sacramento, Gregory Porter ha finora inciso quattro dischi, vincendo un Grammy come migliore cantante jazz con Liquid spirit nel 2013. Rispetto a quell’album, il nuovo Take me to the alley (***1/2) è un mezzo passo indietro: piacevole e rilassato, con il suo baritono da conversazione in bella evidenza, ma con una tavolozza musicale un po’ smorzata. Porter è in concerto al Barclays Nazionale il 15 novembre.

 

Krzysztof Penderecki – Cello concerto n. 2
Per gli ascoltatori curiosi ma non troppo addentro ai misteri e ai segreti della musica colta contemporanea, il polacco Krzysztof Penderecki, classe 1933, compositore, direttore d’orchestra e amico di Karol Wojtyla, è diventato familiare grazie ad alcuni film che utilizzavano le sue musiche: L’esorcista di William Friedkin, Shining di Stanley Kubrick, I figli degli uomini di Alfonso Cuarón (l’emozionante Trenodia per le vittime di Hiroshima, *****). Ora la Warner pubblica Penderecki conducts Penderecki vol. 1 (****1/2), che offre lavori atonali della giovinezza (Salmi di David, 1958, per coro e percussioni), il rarefatto e sereno Inno a Sant’Adalberto del 1997, e il recente Dies illa dagli accenti postromantici composto per le vittime della prima guerra mondiale ed eseguito per la prima volta in pubblico nel 2014. Qui sotto, il trailer polacco del disco e, per dare un’idea più “materica” del compositore e del direttore, il suo Concerto per violoncello n.2 eseguito a Londra, nel 1986, dalla Philharmonia Orchestra. Al violoncello il grande Mstislav Rostropovich.

 

Suz – King of fools / The gathering
Dieci anni fa, quando dirigevo il mensile rock Tribe, avevo una bravissima vicecaporedattore, Susanna La Polla (****), che da grande voleva fare la cantante. Susanna curava con puntiglio la sezione delle recensioni, erano tra i 60 e gli 80 album al mese, nessun altro dava un’informazione così dettagliata. Poi il giornale ha chiuso, io ho fatto altro e Susanna ha fatto la cantante. Con il moniker Suz ha pubblicato dal 2010 tre album trip hop di rara eleganza (l’ultimo, Lacework, è dello scorso ottobre) ed è diventata una delle grandi animatrici della scena musicale bolognese. Ora è stata scelta assieme a Bartolomeo Sailer per rappresentare Bologna in Giappone, al World Music Festival di Hamamatsu. Complimenti, Susanna.

 

The Rolling Stones – I just wanna make love to you/ Mona/ Suzie Q
Monumentale operazione di remastering dell’originale suono monofonico per tutta la produzione degli Stones (*****, niente di meno) dal 1964, anno del primo album, fino al 1969. In edizione limitata, un box piuttosto caruccio di 16 Lp o, più abbordabile, di 15 cd (ci sono, pignoleria studiata ad hoc per i collezionisti, anche le edizioni e le antologie americane degli album inglesi, con alcune varianti di scaletta, e qualche manciata di canzoni di ardua reperibilità). Tutto questo ben di Dio si ascolta anche su Spotify. Colpisce, anche a un rapido carotaggio per rinfrescare i lavori più trascurati, lo status ribadito di pietre miliari per album come Aftermath, Beggar’s banquet e Let it bleed, e la velleità pasticciona dell’esperimento psichedelico Their Satanic Majesties Request. Ma soprattutto, colpisce la potenza dinamitarda dei primissimi album, quelli del 1964 e 1965 tutti cover di blues e rhythm & blues e pochissimi brani originali. Chi dice che nella storia del rock i Rolling Stones sono un quartiere e i Beatles una città forse ha ragione, ma che quartiere straordinario quello degli Stones bluesy, rispetto alle cover educatine che nello stesso periodo sfornavano i Beatles. Perciò ho scelto tre di queste cover (I just wanna make love to you di Willie Dixon per Muddy Waters, Mona di Bo Diddley e Suzie Q di Dale Hawkins), tanto i capolavori come Satisfaction li conoscete già.

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