Direttori dittatori

In Musica

È storia recente. Alcuni orchestrali accusano Daniel Baremboim di violenze verbali e tormenti fisici, Daniele Gatti viene allontanato per “comportamento scorretto” nei confronti dei componenti del Concertgebouw di Amsterdam che l’avevano democraticamente eletto sei mesi prima. L’Orchestra è una microsocietà altamente organizzata fatta di donne e di uomini diversi per nazionalità e cultura. Per funzionare correttamente deve farsi guidare da uno solo che si presume sia il migliore. Ma non sempre questo paradigma regge…

«Heiiii!!! Contrabbassiii!. Corpo di un Dio santissimo… Testa d’asino… Vergogna, vergogna, vergogna…. Tu, tu, tu, tu e tu. Ho vergogna per voi!». «Poco ritardando…. somari! Look at me…Teste di cazzo!». «Seguitemi, e note corte… mi sembrate dei coglioni… sempre indietro, non avete orecchie né occhi». «Sempre in ritardo… o siete sordi o siete ciechi. È una vergogna. Corpo di un Dio santissimo». «No, no, orrore, porcheria, una boiata!». Questo era (anche) Toscanini, occhi di bragia sotto sopracciglia di ferro: guardatele nel busto scolpito da Adolfo Wildt, oggi nel foyer del Teatro alla Scala; vedrete anche lo sguardo che inceneriva e sentirete voce che annichiliva. In orchestra cadevano il silenzio e il terrore. Ma chi aveva il coraggio di ribellarsi? Nessuno nella sua Nbc Orchestra, creata apposta dagli americani per conquistarsi anche il più grande dei grandi direttori, o almeno il più avvolto di leggenda, fu sfiorato dall’idea di rivoltarsi contro il leader crudele, intollerante perché perfezionista, che scagliava tutta la sua passione contro gli “asini” che sbagliavano per incapacità o per paura.
“Oggi – ammette Daniel Harding – quel rapporto con l’orchestra, qualunque orchestra, sarebbe impossibile da sostenere. Nessun direttore se lo potrebbe permettere”.

In questi giorni tornano a frullare nelle orecchie le urla di Toscanini, dopo che un gruppo di orchestrali – non molti per la verità, e non tutti ancora in forza alla Staatskapelle di Berlino – hanno rivolto a Daniel Barenboim accuse di violenze verbali, tormenti fisici e psicologici. Non questioni da metoo e molestie sessuali, ma cattiveria d’artista senza freni. Un percussionista ha lamentato di aver dovuto usare psicofarmaci per superare i traumi quotidiani cui era sottoposto (da diversi anni è all’Opera di Monaco), altri musicisti pare abbiano denunciato vessazioni analoghe. Stress, paura, umiliazioni. Chissà.

È strano: la società e la politica giurano che il Popolo di ogni nazione e parte del mondo cerca un leader forte e perfino accarezza il pensiero di un dittatore. Se l’ha già in casa, lo difende con orgoglio anche se affama il popolo. Se non l’ha, lo costruisce. Ma nei confronti dei direttori-dittatori è saltata una valvola di protezione che li teneva al riparo. Barenboim non è solo musicista, ma anche uomo di pensiero, di lotte scomode e rischiose: in Israele deve girare con la scorta perché sostiene il dovere della coesistenza fra israeliani e palestinesi sulla stessa terra, e in nome di questa idea ha formato la Divan Orchestra in cui suonano israeliani, palestinesi, siriani, arabi. Oggi viene additato allo scandalo per metodi duri e mancanza di rispetto nei confronti di orchestrali che dirige ormai da trent’anni e che lo hanno anche nominato Direttore a vita. Che cosa è cambiato? Lui o il pensiero comune?

Il Concertgebouw di Amsterdam, che nel 2018 aveva democraticamente eletto Daniele Gatti come Direttore Musicale, nemmeno sei mesi dopo lo ha messo alla porta per “comportamento scorretto” nei confronti di alcuni(e) orchestrali. Il tutto sulla base di un articolo di giornale (americano), che riapriva una storia di tredici anni prima: il rapporto forse non consensuale con una musicista d’oltreoceano. La somma delle scorrettezze passate, presunte, e delle presenti, da dimostrare, sono state sufficienti a giustificare l’allontanamento, poco dopo una nomina quasi plebiscitaria. Il direttore non andava più bene e il regolamento di conti serviva ad aprire una “discontinuità”? A questa ipotesi allude anche Barenboim, dichiarando le accuse contro di lui come il sabotaggio per la sua ennesima rinomina alla Staatsoper di Berlino alla scadenza del 2022. L’allontanamento per scandalo di un altro genio della direzione d’orchestra, James Levine, guida storica della Metropolitam Opera House di New York, è stata purtroppo meno contraddittoria e sospetta: certe cose in Central Park erano note da una vita. Quasi un enigma che gli scrupoli, per lui, siano saltati così tardi.

Ma la natura del direttore-dittatore è fusa nel suo ruolo. L’Orchestra è una microsocietà altamente organizzata, fatta di donne e uomini diversi, spesso di ceppi, nazioni e culture lontane, organizzata per raggiungere un comune obiettivo ch’è anche il più alto ed educativo che una collettività possa proporsi: ridare vita alla musica di esseri umani che non ci sono più, come se ancora fossero tra noi.

Per funzionare correttamente, questa microsocietà non può che scegliere una strada: farsi guidare da uno solo. Il “migliore”. Quando attende alla prova un giovane direttore o un vecchio circondato di leggenda, l’orchestrale che siede al leggìo ha un momento che vive con trepidazione un po’ carogna, riassumibile in: “adesso dimostrami che tu meriti di essere lì con la bacchetta in mano e io qui a fare quello che dici tu”. Insomma, che ne sai più di me.

Nessun grande direttore è dolcezza e remissività, pur con metodi diversi legati alla storia e alla natura personale di ciascuno. Claudio Abbado non si ricorda che alzasse la voce e aggredisse: il suo metodo di concertazione era la ripetizione calma e quasi ossessiva di interi passaggi finché l’orchestra non assorbiva come per “autocoscienza” l’idea di quella musica come lui l’intendeva. Ma i silenzi e gli sguardi non lasciavano tranquillo nessuno.

Riccardo Muti è un narratore straordinario: ogni prova è un capolavoro di arte della convinzione, di sapere e di gioco, un vero pezzo di teatro. Ma quando qualcosa non va, l’ironia feroce dell’uomo del sud lascia segni indimenticabili.

Un grande, un genio, Carlos Kleiber, ingannava con quel suo labbro che scopriva i denti in un eterno sorriso. Dirigeva con il magnetismo dello sguardo e il fluido del corpo. Se qualcosa non veniva bene, l’orchestra doveva solo incolpare se stessa, e lo sapeva. In un video su YouTube, c’è l’esempio strepitoso di una sua prova con un’orchestra tedesca, pochi anni dopo la guerra. Un‘orchestra di facce dure, occhiali spessi, sguardi spenti, entusiasmo zero. Il clarinetto non gli piace e non entra giusto. Kleiber gli affianca un secondo clarinetto. Alla fine, gelido e irridente: «Abbiamo fatto bene a raddoppiare la sua parte, così c’è qualcuno che conta per lei!». Dopo, dormireste tranquilli?

Daniel Barenboim, pure dotato di uno sguardo enigmatico, che ti fruga dentro, in prova è un turbine di messaggi, di voce, di idee e di corpo. Che meriti di star lì, lo dimostra anche solo concertando a memoria tutto Wagner. E non solo Wagner. Segnala la lettera e il numero di battuta, senza partitura, all’orchestrale che ha la parte davanti a sé. Basta questo a incutere un po’ di soggezione. Nei nove anni che ho passato alla Scala, non ricordo scontri fisici. Alzate di voce e scatti di nervi, sì, eccome. Ma aggressioni non direi.

Infine, nessun direttore che meriti fama e rispetto può escludere di essere stato anche sgradevole. Nessuno può dire di non aver mai lasciato segni sulla carne di qualcuno.

Curioso è solo scoprire che, oggi, nel tempo gelido in cui tutti i popoli del mondo sembrano sognare e difendere i presidenti a vita, i nuovi zar, gli affaristi al potere, i generali al governo, i principi corrotti, le guide spirituali col patibolo a pieno regime, proprio il dittatore più meritocratico possa dare scandalo nell’esercizio del più non violento fra i mestieri.