Conchiglie d’autunno: due libri per tornare al mare

In Letteratura

Un romanzo poetico e visionario sulla sopravvivenza, una coppia di stralunati guardiani di una città in rovina e una collezione di conchiglie memorose per montare uno scafo: quello di Peppe Millanta è, dice, uno sprequel che anticipa e compone il suo precedente “Vinpeel degli orizzonti”.
Lorenza Stroppa racconta invece una storia sospesa tra due coste: la Bretagna che conserva segreti e caratteri duri, una madre che lascia il suo presente per fare i conti con un dolore troppo grande da contenere e un ragazzo (suo figlio) che riconnette all’indietro la catena di eventi che ha portato una serie di vite a sbrecciarsi.
Due romanzi pieni di mare alle soglie dell’autunno: entrambi alle prese con il tema della scelta e della memoria.

Peppe Millanta, Cronache da Dinterbild (Neo Edizioni)

Serve trovare tutte le conchiglie per chiudere lo scafo che permetterà di lasciare Dinterbild.
Ma, per farlo, occorre ascoltarle una per una, perché a ricomporre l’incastro sono solo quelle che contengono ciò che resta del dolore umano degli uomini e delle donne che hanno abitato la città affacciata sul mare.
Dinterbild, infatti, adesso non è altro che una rovina in abbandono, dentro alla quale si muovono, stralunati, Ned e Biton, sopravvissuti o, piuttosto, supervissuti: sono rimasti solo loro a fare i guardiani di quella Spoon River senza tombe, dove i ricordi rotolano confusi sulla battigia e rischiano di perdersi per sempre – mentre, al contrario, solo la loro ricomposizione potrà permettergli di ripartire.
Memoria e dolore restano il patrimonio irrinunciabile per la propria trasformazione, pena il naufragio – definitivo e vero – dell’esistenza.

«Però allora» proseguì Biton, «se ci vuole un dolore per creare un nuovo mondo, che sia Dinterbild o chissà cosa… magari anche Dio ha da qualche parte la sua conchiglia, col suo dolore… e magari l’Universo non è altro che la sua Dinterbild, creata appositamente per dimenticare…»

È un libro ibrido, Cronache da Dinterbild, che principia sottoponendo al lettore la compilazione di un patto burocraticamente asciutto e programmaticamente bizzarro: così si confà a chi decide di inoltrarsi tra le pagine di quello che l’autorità competente in calce definisce come uno sprequel, ovvero un testo che contiene sia antefatti sia eventi successivi alla vicenda madre, che altri non è che Vinpeel degli orizzonti (il romanzo esordio, sempre Neo Edizioni, premio John Fante Opera Prima). E l’ibridazione messa in moto da Millanta utilizza il segno grafico come mezzo di sfondamento: dentro alla narrazione si incontrano illustrazioni di conchiglie, pentagrammi, cartelli, moduli; ma anche, e più diffusamente, maiuscoli e minuscoli, lettere capovolte, pieni e vuoti di pagina. L’effetto è quello di una lettura che induce il suono e insegue l’immagine, cosicché il “testo” diventa un prodotto non solo alfabetico e non solo grammaticale.

La vicenda degli ultimi che dai rispettivi segreti cercano salvezza e senso, del resto, si muove tra echi immaginari di tutti i tempi: dietro all’alacre sagomatura dello scafo che porterà ad abbandonare Dinterbild occhieggia Odisseo con la sua zattera, ma è subito Cast Away il modo in cui il mare si relaziona con chi decide di affrontarlo; e così, dentro alla narrazione della barca da costruire, che fa da cornice e tutto tiene insieme, si innestano le voci della memoria di chi è andato: dentro il sussurro di una conchiglia, per frammenti, percepiamo i legami di una intera comunità che si è allontanata in massa dalla furia del vandali, lasciando dietro di sé la possibilità di un universo moltiplicato altrove (sarà un caso che il cognome del giudice di Dinterbild sia il medesimo del protagonista del capolavoro di Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel?).

Ed è vero che, per chi è rimasto incastrato nelle macerie del tempo e vaga in un luogo conosciuto-non più riconoscibile, l’alone di mistero rimanda a Lost, ma quello che fa di questo libro di Peppe Millanta un organismo incantatorio è la volontà di levare: le oscurità si immaginano, parlano invece le ombre; il tormento si percepisce, ma non c’è indugio; l’allegoria assorbe la complicazione. Così una certa delicatezza viene sempre salvata, e non è poca cosa.

Lorenza Stroppa, Cosa mi dice il mare (Bottega Errante Edizioni)

L’acqua prende, l’acqua restituisce. Questo sa, Corinne, che ha deciso molti anni prima di tornare in superficie dopo la tempesta emotiva che le ha squassato la vita: ha cambiato luogo, ha scelto l’altro lato dell’orizzonte, ha sposato Gus e ha avuto un figlio.
Eppure, nell’inquietudine che tiene a bada nelle sue giornate, è consapevole che, sotto la superficie, la corrente è ancora agitata, e non si calmerà fino a quando non tornerà a tuffarsi proprio lì dove il suo tempo si è incrinato. Così, quando suo figlio Roux ha più o meno l’età che aveva lei quando la vita l’ha messa davanti a uno spartiacque definitivo, Corinne si risolve a partire per tornare nei luoghi nei quali i suoi ricordi sono rimasti incatenati a un veto di conoscenza e, insieme, a un senso di colpa smisurato.
Tra lettere, pensieri, flash-back, Lorenza Stroppa intreccia i due piani temporali di Cosa mi dice il mare (Bottega Errante Edizioni).

Fermare tutte insieme le lancette della sua collezione di sveglie corrisponde per Corinne alla necessità di affrontare, finalmente, la radice del suo male.
Ma nel preciso momento in cui la corsa dei numeri viene interrotta sui quadranti dalla risoluzione della madre, qualcosa scatta nella mente del figlio, cui serve un sistema per reagire al dolore di essere stato abbandonato. Quasi la necessità di controllo trasmigrasse nella testa di Roux, il bisogno ossessivo di contare tutta la realtà che lo circonda lo invade e lo condiziona, finché suo padre non decide di mandarlo in Bretagna, dai nonni materni.
Nella casa che ha visto sua madre ragazzina, Roux si trova costretto a usare i suoi numeri per affrontare la vita: stringe nuove alleanze e, contemporaneamente, impara a conoscere le storie e i segreti del piccolo paese.

Impercettibilmente, un nuovo tempo inizia a scorrere: è quello dei tuffi dalla diga, delle giornate lente, dell’apprendimento dell’acqua, dei pomeriggi che suo nonno trascorre sul tetto a scrutare l’orizzonte, del vecchio Arthur che colleziona in una grotta gli oggetti che il mare restituisce cambiati. Ed è, anche, il tempo, simmetrico, della ricostruzione della memoria di Blanche e della pericolosa decostruzione di Anne, la cui pelle è cosparsa di un numero di lentiggini impossibile da trattenere.   

“E quanta sabbia serve per coprire la memoria del passato? Non si può coprire, mi rispondo con amarezza (…), prima o poi la risacca del tempo, ostinata e costante, riuscirà a lambirla e a spostarla altrove”

Senza saperlo, Roux e Corinne, a distanza, stanno risalendo all’indietro nella medesima catena di cause ed effetti: ciascuno scoprirà un modo diverso di fare i conti con il passato.

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