Borkman, piccolo (grande) uomo

In Teatro

Uno straordinario Lavia alle prese con John Gabriel Borkman, self made man che ha perso per sempre il senso del giusto e della dignità

È tornato in scena uno degli eroi più seducenti e attuali di Ibsen, quel John Gabriel Borkman, scritto nel 1896 dieci anni prima di morire, in una stagione ricca di fermenti ibseniani, in cui il grande autore norvegese (per chi vuol saperne di più c’è un magnifico libretto di Savinio edito da Adelphi) sembra aver riconquistato con molti allestimenti di diversa estrazione, un pubblico quasi stupito.

Al di là dei vezzi mattatoriali di Spettri, del figlio che vuole il sole o alla porta sbattuta in Casa di bambola, Ibsen è scrittore modernissimo che aveva visto con pessimismo un futuro oggi molto concretizzato.

Il testo che Marco Sciaccaluga ha allestito allo Stabile di Genova (ora a Firenze, poi a Napoli) sembra un requiem non solo della civiltà del consumo bancario, quindi degli “affari” nati nel Rinascimento, ma anche di tutto il welfare tanto caro al progressismo nordico. Dopo le storiche messe in scena di Ronconi e di Castri, Borkman era tornato dietro le quinte ma oggi risorge a spiegarci a crisi dell’uomo che si identifica col denaro e con lui traffica a vita, suicidandosi.

E c’è, ben visibile ed udibile come con un carillon, la giostra dei sentimenti, qui in particolare le due sorelle gemelle, il primo amore e la moglie subìta, senza contare il risalto dato sempre all’arrivano i nostri generazionale, al grido di libertà del figlio che cerca allegria in altre case e su altri pianoforti.

Casa Borkman, oltre che senza mezzi perché il padre è finito in galera per bancarotta (e con le manette mi hanno preso!….) è un luogo senza speranza né sorrisi, dove l’unico sport è quello di rinfacciarsi colpe vere o presunte e sfogliare la margherita tra Rimorso e Rimpianto. Chi vince? Entrambi. Il problema base è che Borkman era un banchiere e manovrava i soldi degli altri ma, come dice più volte nel corso dei quattro atti, il denaro doveva e deve servire alla felicità, corsia unica preferenziale e diretta.

Più ricchezza, più lavoro per tutti dice ancora il pover’uomo, imitando slogan odierni, calpestando il suolo della stanza più alta dove è quasi rifugiato e nascosto. Oggi, dopo le battute di Brecht che ci chiede nell’”Opera” se sia peggio fondare o sfondare una banca, dopo i Lehman Brothers di Ronconi e Massini, il ruolo ottocentesco del “contante” acquista un valore energetico in più e la profezia di Ibsen ci pare assoluta. I soldi sono protagonisti in molto teatro di quel periodo, in Come le foglie una famiglia borghese va in rovina e Borkman, questo piccolo uomo nevrotico, si aggiunge alla galleria meravigliosa dei nevrotici di Gabriele Lavia.

Un uomo solo va a morire sotto la neve che appare con un colpo di scena nell’emozione calda del teatro, accanto alla donna che amato e poi anche a quella che ha odiato. La maledizione di un self made che ha creduto nel progresso corrente della moneta, illudendo che il denaro faccia la felicità, finisce così nel gelo morale e materiale.

Edvard Munch, che di urla silenziose se ne intendeva, disse che il testo di Ibsen era il più potente paesaggio invernale dell’arte scandinava, sapendo che il gelo era nascosto dentro. Lo spettacolo di Sciaccaluga fa onore al naturalismo del teatro che fu, pur con qualche licenza come quando il cambio scena avviene a vista raffreddando un po’ l’emozione (i trucchi del teatro..) e nel complesso offre un allestimento di grandi emozioni e sentimenti in cui Lavia è un gigante che parla prima sottovoce e poi sottovoce si spegne e quando alza la voce e rotola sul ghiaccio sembra un burattino senza fili, un uomo che ha perso per sempre il gusto e il senso della dignità.

E sono bravissime le due compagne,  a partire da Laura Marinoni che truccata quasi da clochard ha un cruccio interiore invisibile ma visibile nella recitazione: sgomenta e con destinazione ignota, si arrampica sui piani inclinati della scena e si incrina l’animo. Federica di Martino è la donna che ha sempre amato Gabriel ma l’ha ceduto alla sorella (prendendosi poi in pegno il nipote) ed ha un razionale livore di cinismo bergmaniano, obbedisce a una regola etica lontana, che ode solo lei. Sono tutti bravissimi perché legati da una invisibile catena di emozioni che li rende corpo unico, insieme al resto della bella compagnia.

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