La sognante attesa del significato. Lingualuce di Damiano Sinfonico

In Letteratura

È questa la missione di un poeta: aprire un’immagine, lasciare in dono un significato nuovo, suscitare in modo inatteso un’emozione sottile nel lettore. Tutto in “Lingualuce” di Damiano Sinfonico.

Cos’è la “lingualuce”? Mi piace pensare che sia un uso della lingua depurato dalle incrostazioni del parlato quotidiano e del luogo comune (dalla “chiacchiera” direbbe Heidegger). Probabilmente prova ad avvicinarsi a questa possibilità espressiva Damiano Sinfonico nel suo ultimo libro di poesie, Lingualuce (edito da L’arcolaio).

Si tratta di una raccolta di 25 poesie divise in tre sezioni in cui emerge fin da subito l’inclinazione narrativa e la predisposizione relazionale dell’io poetico. Vengono infatti descritti momenti, dialoghi, brevi viaggi, interazioni e in questi c’è sempre un tu o un voi con cui l’autore ha uno scambio significativo:

«Ci siamo persi a un certo punto. / Nessuno sapeva l’indirizzo. / Inutile il navigatore / abbiamo chiesto a un passante / ci ha detto di tornare indietro / di percorrere altre strade» (pag.13).

«“Di che pianeta sei” / mi fu chiesto / ad un tratto» (pag.14).

«Mi hai detto davanti alla vetrina di orologi: / è strano, nessuno batte l’ora giusta» (pag.16).

 

Nel primo di questi passaggi elencati, tratto dalla poesia che apre la raccolta, viene forse chiarito il senso dell’intero libro e dell’avventura poetica dell’autore: cambiare strada (linguistica, percettiva), andare lentamente per non smarrirsi nella realtà. Questa lentezza finisce per schiudere una dimensione di attesa quasi sognante – ben realizzata attraverso il ritmo lento e suadente dei versi, non caratterizzati da una specifica metrica, né da figure elementi sonori (rime, assonanze) particolarmente rilevanti – in cui un significato inatteso, anche minimo, ma comunque decisivo si rivela:

«Gli studenti mi guardano inespressivi, a volte / come pesci in una bolla: / girano in tondo nella loro ignoranza / girano impauriti e smarriti. / Poi qualcuno scatta, solleva il braccio / ha la risposta in tasca / ha la risposta che non contemplavo» (pag.17).

«È alto e goffo il professore, / un po’ più grande della lavagna / […] ma parlando di un russo fa una pausa / e dolcemente si confessa / di quando lavorava di notte / e al mattino si addormentava / davanti a un film di Tarkovskij» (pag. 19).

E uno degli aspetti più interessanti del libro è, a mio avviso, proprio questa capacità dell’autore di saper conferire un ritmo disteso alle sue poesie, quasi da prosa poetica, pur nell’estrema brevità, tipicamente lirica, delle stesse. Sinfonico non ha bisogno cioè di ampi spazi, né di dilungarsi nella narrazione per segnare col proprio personale ritmo la pagina e questo è, credo, segno inequivocabile di una personalità già matura e definita da un punto di vista letterario, nonostante la giovane età.

Dicevamo all’inizio della necessità di trovare una lingua più vera. L’autore pare avvicinarsi all’obiettivo grazie alla pulizia del suo linguaggio – un periodare semplice, sia da un punto di vista lessicale che sintattico – sia attraverso la delicatezza e freschezza di alcune metafore («Nei suoi occhi passò un fiocco di stupore», «abbiamo soffiato sugli anni come schiuma», «la spina della scrittura»), sia infine inserendo la narrazione in una realtà definita da un punto di vista spazio-temporale, cosa che rende l’oggetto trattato facilmente comprensibile e condivisibile col lettore.

Il lavoro poetico è un lavoro faticoso sulla lingua che permette, quando riesce, di schiudere un cielo chiaro di significati in cui ci si può finalmente innamorare di qualcosa (per riprendere la bella immagine di una poesia); è l’estrazione della parola giusta dalla scatola della mente, che dia nuove possibilità espressive («sillabare una lingua nascente»), è togliere la polvere dall’abituale modo di esprimersi, tela di ragno che ti impiglia:

«“Come si dice”, mi chiedono i miei studenti. / si è in cerca dell’espressione adeguata / perché una lingua ha molti rami / su uno solo è preferibile poggiare. / È la domanda che si fanno i poeti / fra le parole, trovare la parola giusta / che faccia vedere mentre la pronunci».

Al di là di tutto, mi sembra emerga dai versi continuamente l’umanità delicata dell’autore, che partecipa allo svolgersi degli eventi dal basso, senza assumere posizioni assertive o autoreferenziali, percependo i sussulti e le emozioni anche sottili che la vita di ogni giorno è in grado di regalare.
C’è un’inclinazione evidente a condividere l’esperienza del dolore, del dubbio o della gioia con gli altri, un orizzonte pregno di umanità e compartecipazione sincera:

«Fuori dal loro ambiente le persone cambiano / come la professoressa ora in pensione” (pag.15) .

«“La sua vita non ha lasciato tracce” / stavo per scrivere in un articolo. / Poi ci ho ripensato. / Non si può scrivere una cosa più crudele. / la vita non si scioglie come neve» (pag.29) .

«A quante domande ci hanno sottoposto, / di norma burocratiche / nessuno chiede mai se preferiamo un tramonto / o se giornate piovose dell’autunno» (pag.31).

Cosa rimane al lettore di queste poesia? La sensazione di aver fatto una breve ma significativa escursione in una vicenda umana sincera e concettualmente rigorosa, segnata da una lieve malinconia che si accompagna sempre ad una speranza: quella di innamorarsi di qualcosa, di trovare la propria modalità espressiva, di riuscire a stabilire un contatto più profondo con gli altri, di stupirsi delle cose e vederle, magari solo per un attimo, in una nuova luce (luce è una parola che ricorre diverse volte nella raccolta). È questa la missione di un poeta: aprire un’immagine, lasciare in dono un significato nuovo, suscitare in modo inatteso un’emozione sottile nel lettore.

In un modo semplice, ponendosi sempre in una posizione tutta umana di dubbio e di stupore quasi infantile per la sua limpidezza, Damiano Sinfonico riesce a farlo.

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