Lì dove la parola diventa segno: Giulio Mozzi, “Il mondo vivente”

In Letteratura

Il momento in cui apprendiamo, in cui il pensiero si trasforma in parola, e la parola in scrittura, è un luogo denso di memorie. Giulio Mozzi lo racconta, in una raccolta di cinquanta frammenti poetici. L’infanzia, l’essere figli, la famiglia, i legami e le risonanze sono i temi che tengono insieme un’opera che è, nel medesimo tempo, di rielaborazione e di salvezza dall’oblio: “Il mondo vivente”, pubblicata da LietoColle.

Esiste una verità degli oggetti che attraversa il tempo e crea precisi ancoraggi con ciò che abbiamo vissuto, che restituisce memoria di luoghi nei quali ci siamo fermati, di persone che abbiamo avuto sodali, di vicinanze che sono state, scelte fatte, suoni. Al di là, anche, di quella che può strettamente essere la loro funzione.
L’anima delle cose che ci circondano sta per larga parte nel nostro sguardo, ma vive nell’ordine che gli diamo, nella gerarchia delle affezioni di cui sono intrise e perfino nella collocazione con cui le infiliamo nei cassetti.
Così è che, mentre stanno disposti in una casa, gli stessi oggetti acquisiscono un senso (una luce, quasi), che cambia totalmente a incontrarli in un negozio o in un mercato: l’usura non appartiene soltanto allo stato di conservazione; sono le storie che li attraversano, e il nostro esserne coscienti, che costituisce un loro carattere, una invisibile sostanza – emotiva – provvisoria.

Su questo terreno si muove la recente raccolta poetica di Giulio Mozzi, Il mondo vivente, pubblicata da LietoColle per il progetto editoriale Gialla Oro di Pordenonelegge: ideale contraltare di quel lavoro inaugurato dieci anni fa esatti con La stanza degli animali (:duepunti edizioni) con il quale condivide il medesimo terreno generativo, in una sorta di magistrale dittico della memoria.

E però mentre in quella plaquette era il disfacimento il nodo attraverso il quale stavano inanellati i testi, questa volta è quasi una volontà di manutenzione, di riconnessione a serpeggiare tra le pagine e a costituirne, insieme, la direzione.

Volevo raccogliere i ricordi del mio apprendimento della lettura e della scrittura e unirli ad altri ricordi, assai più recenti, sull’insegnamento della scrittura. Tutto è saltato quando mi sono imbattuto in alcuni oggetti, spesso oggetti scritti, che portano le tracce dei miei genitori, di me stesso bambino e di altre persone. Mi rendo conto che sono oggetti privatissimi e nel contempo banali, di quelli che possono saltar fuori da qualunque cantina o soffitta o vecchio armadio”, scrive l’autore nella nota esplicativa in quarta di copertina, preannunciando quello che accade, di fatto, tra le pagine.

Poiché Il mondo vivente è, in tutto e per tutto, un’opera commista: fotografie (poche e misurate), immagini tratti da testi, ma soprattutto oggetti di scrittura (pagine di quaderno, frasi asportate da agendine, temi di scuola, intestazioni di cartoline, frammenti di giornale, stralci di comunicazioni congressuali, disegni) sono parte di un discorso poetico che si propone, con grande delicatezza, come domestico, ma finisce per costruire una architettura i cui confini vanno ben oltre la storia famigliare.

Giulio Mozzi, in quasi trent’anni di lavoro letterario, in racconti, poemi e infine anche in raccolte di versi (su tutti Estremi amori, postume querele, a firma di Mariella Prestante) ci ha abituato a una voce mutevole, di grande capacità mimetica.
Dentro Il mondo vivente, invece, non è la finzione l’urgenza che guida questo mosaico narrativo in metrica: sarà che quando si ha a che fare con le cose di carta, soprattutto se scritte a mano, si deve fare i conti con il fatto che la loro consistenza non è data soltanto dalla forma o dalla funzione, ma altresì dall’intenzione con la quale sono state fatte esistere, ovvero quel preciso luogo del cervello e della memoria in cui il pensiero ha fatto un salto nella dimensione concreta.

Oggi scrivo questa poesia per ricordarmi
la fatica delle dita strette
attorno alla matita.

si legge, non a caso, nel movimento di apertura: il primo di cinquanta frammenti dettati dalla volontà di scendere nel proprio passato e agganciarlo, per fermare e ricostruire la vicenda della formazione intima della parola. Cos’altro è l’apprendimento dello scrivere se non l’atto primario della affermazione, dell’uscita di un sé nel mondo? E quanto resta di tanto immaginario bambino, dei luoghi in cui si forma, delle volontà, della fatica dell’apprendimento quotidiano, del suo progredire tra affetti e solitudini, di ripetizioni e invenzioni?

I pomeriggi di compitazioni grammaticali (quaderni interi di analisi in colonna), l’istante in cui la famiglia – tutta – condivide il silenzio della medesima stanza (ciascuno affondato nella propria lettura), le parole all’atto della loro nascita sulla bocca di un bambino e la grafia scoscesa degli ultimi giorni di vita di un padre anziano, la postura delle frasi come impostazione dei rapporti (anche di quelli più intimi), le letture furibonde, i modi di dire: una intera vita di segni è quella che affiora dalle pagine di questo testo che, in filigrana, lascia intravvedere una esperienza più ampia (quella di una provincia in cui una donna che insegna dà scandalo, quella di un tempo che avanza attraverso i titoli dei giornali, quella di un Paese di bambini che aspettavano il ritiro dello stipendio dei genitori alla Banca d’Italia – ed ora non più).   

Ogni cosa non è che il risultato di infinite altre, che permangono.

Il mondo vivente parla di questa persistenza.
Del momento esatto in cui le cose si fanno ricordo, i ricordi si fanno memoria, la memoria si fa distanza (e dunque passato) e il passato si fa riflesso: di ciò che non si è più in ciò che si è oggi, trasformando il riconoscimento in atto.

Mi rigiro tra le mani queste carte
che trovo senza cercarle nei cassetti di casa:
cartoline, compiti in classe, fotografie.
Anche la rete mi restituisce
con un minimo sforzo immagini, testi,
tracce involontarie del passaggio
su questa terra di nonni, bisnonni, trisavole.
Le interrogo, le tracce. Nessuna voce
ne viene a me: solennemente
tacciono, e non la presenza
ma l’assenza sento fortissima, l’assenza
(anche di me, di quel bambino
che fece il suo primo viaggio in treno
e si meravigliò).

La casa, i suoi oggetti. Un padre e una madre cui dare memoria. Il luogo invisibile – e però vitale – dell’apprendimento. Il modo in cui, attraverso i libri e le emozioni, ogni singolo sistema di immaginazione si forma e piega dentro le nostre teste. Le relazioni. La logica imperscrutabile attraverso la quale colpiscono di ritorno, a distanza di generazioni, determinate fascinazioni.

Il senso delle cose: di come tutto, in fondo, si tenga nella parola.
Questo è Il mondo vivente di Giulio Mozzi.

Leggerlo, in questo momento di frattura storica, significa contestualmente prendere le misure di ciò che vale la pena non perdere per strada. Umanamente.