Dai nostri scaffali: ‘Una questione privata’

In Letteratura, Weekend

Ci sono libri che ci aspettano, che avremmo potuto leggere assai prima e dei quali una lettura matura fa cogliere sfumature diverse. Beppe Fenoglio è a pieno titolo tra i nostri maggiori e ‘Una questione privata’ è uno dei più bei romanzi sulla Resistenza perché parla d’amore

«La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba. 
Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo». 
Il più bel romanzo sulla Resistenza italiana comincia come una storia romantica. 
Il più bel romanzo sulla Resistenza italiana assieme a I piccoli maestri di Luigi Meneghello, uno dei più bei romanzi del Novecento italiano, è una storia romantica. Una questione privata “nel fitto” della guerra civile. 
Quando comincia a scriverlo Beppe Fenoglio (1922-1963), ex partigiano e procuratore di una casa vinicola di Alba, scrittore nel tempo che ruba al sonno e ai libri contabili, ha già pubblicato due libri su quegli anni terribili: I ventitré giorni della città di Alba, che avevo trovato da ragazzo in una bancarella e letto fra l’ammirato e l’imbarazzato perché mi sembrava, negli astratti furori della mia giovinezza, che dissacrasse la Resistenza e invece la rendeva soltanto più umana, e Primavera di bellezza. E una storia contadina, La malora, che Elio Vittorini ha accolto malvolentieri nella collana einaudiana dei “Gettoni”, quasi stroncandola con un risvolto ostile.

Un altro romanzo monumentale, Il partigiano Johnny, che apparirà postumo e diventerà presto libro epocale, oggetto di culto, è stato abbandonato. Occorrerà dire che anche questo l’ho recuperato tardi, da giovane mi intimoriva con la sua mole e con i suoi robusti inserti in inglese?
In quel 1960 in cui scrive Una questione privata Fenoglio ha deciso di cambiare rotta: non vuole più una Resistenza sul filo della memoria personale, non vuole più un romanzo corale che si nutra di tutta la Storia e di tutte le storie. Vuole invece un romanzo in cui sia centrale il plot, in cui alla logica dell’intreccio vengano ricondotte (o sacrificate) le grandi vicende di quegli anni. Perché Fenoglio vuole essere uno scrittore partigiano e non un partigiano scrittore

Una questione privata conosce tre stesure. La terza, perfetta, è quella pubblicata da Einaudi. 
Dove il giovane Milton, ex studente che ha maturato la scelta della guerra partigiana, passa accanto alla villa abitata fino a qualche tempo prima dalla ragazza di cui è innamorato, Fulvia. Sosta, si lascia assalire dai ricordi, chiede all’anziana custode di vedere la stanza che ha assistito alle loro discussioni appassionate, all’ascolto dei dischi americani che regalava a Fulvia (Over the rainbow è la struggente colonna sonora del flashback), alla lettura delle poesie e delle lettere che scriveva per lei. 
Poche incaute parole della custode, che lasciano intendere una storia d’amore tra Fulvia e Giorgio, il biondo e ricco amico del cuore di Milton, fanno scattare la molla dell’ossessione. 
Milton vuole “sapere la verità”. Cercherà Giorgio e, appreso che è stato catturato dai fascisti, batterà le Langhe in cerca di un fascista da catturare per scambiarlo con lui. Prenderà un sergente, sarà costretto a ucciderlo, inseguito dai fascisti andrà incontro a un destino di morte. «Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò». 

Italo Calvino paragonò Una questione privata all’Orlando furioso: i cavalier l’arme gli amori. Gli inseguimenti e le follie amorose. L’intuizione è folgorante, ma non solo di questo si tratta. Fu Calvino il primo a riconoscerlo: finalmente il romanzo sulla Resistenza c’era, finalmente una lunga stagione poteva dirsi conclusa. Perché la storia privata di Fenoglio è la più universale delle storie, dove la Resistenza non è fondale o panoplia ma vita vibrante. Qualcuno ricorda la canzone di Gaber «Un’idea, un concetto, un’idea/ finché resta un’idea/ è soltanto un’astrazione/ se potessi mangiare un’idea/ avrei fatto la mia rivoluzione»? Bene, qui Fenoglio ha mangiato un’idea, l’ha cucita nella pelle, l’ha fusa al calor bianco della letteratura. Non c’è bisogno di discorsi, di proclami, perché la scelta di campo è scelta di vita. 
Nei miracoli di sintesi che accadono alla grande arte, Una questione privata riesce a essere tante cose. Un romanzo di formazione: la vita partigiana come solitudine, ascesi, isolamento, maturazione di una coscienza adulta e di una “cognizione del dolore”. Un resoconto di quei terribili mesi: con la furia e la commozione (le pagine indimenticabili sull’esecuzione per rappresaglia delle due staffette ragazzine, Riccio e Bellini), il gelo, i poveri fuochi di tutoli di mais, il corpo che duole e i polmoni che sibilano, e una nebbia e un fango mai così vivi e veri. Un atto d’amore per la sua terra, per quelle colline che Pavese mitizzò e che qui sono quasi persone, per l’austera dignità e la fame contadina. Un omaggio infine alla cultura inglese di cui Fenoglio era imbevuto, non per povero vezzo snobistico di provinciale, ma per appassionato vagheggiamento di una civiltà e di un sistema di valori che allo scrittore apparivano l’antitesi del fascismo: nel nome (Milton, come il poeta puritano) e nell’infelicità amorosa del protagonista, respinto come Heathcliff, ma a differenza di lui incapace di covare rancore. 

Quand’ero ragazzo questo romanzo non l’avrei capito, temo. In quei tempi il richiamo dell’assoluto (gli “astratti furori” di cui parlava Vittorini in Conversazione in Sicilia, e mai definizione mi è parsa  più appropriata per i nostri slanci di allora) risucchiava  le persone e le storie, facendole scomparire di fronte all’urgenza del momento. E il mondo era bianco e nero, dualista e manicheo. Poi siamo cresciuti e ci siamo levigati. E abbiamo capito, spero, che le idee, i valori, anche  le scelte assolute camminano con le gambe delle persone, con le loro umanissime passioni (un saggio recente bello e istruttivo, Contro l’impegno di Walter Siti, mette in guardia dalla retorica degli slogan, e dalla sciatteria in agguato in ogni “contenutismo”), anche con i loro errori e deragliamenti. 
Dobbiamo molto, in letteratura, alla nostra  provincia e ai nostri outsider (l’altro grande testo del dopoguerra che avrei voluto proporre, Casa d’altri di Silvio D’Arzo, nasce lontano dai clamori e dai circoli e non piace all’inizio degli anni  ’50 ai sacerdoti delle patrie lettere).

Io, adolescente che adorava Pavese e che non lo ha dismesso, mi trovo con il tempo sempre più in sintonia con questo aspro e appartato langarolo che in vita ebbe più rifiuti che apprezzamenti (ma piaceva a Roberto Longhi e Anna Banti), con il figlio del macellaio Amilcare e della “comandoira” madama Milcare che balla in piazza a guerra finita. Sono questi i nostri maggiori, non è mai troppo tardi per scoprirlo.

In apertura, foto di Federico Burgalassi/ Unsplash