C’erano una volta tre amici, figli a loro volta di altri tre amici: è la catena dei legami, che sostanzia la vita della provincia italiana, di generazione in generazione, di rito in rito. Quando però si scopre che nel gruppo, in origine, erano in quattro, e che il quarto è morto male, tutto – nel paese della profonda pianura padana – comincia a girare in maniera diversa. L’inquietudine si somma al ricordo; il ricordo a ciò che non può più essere come prima. E l’eterno ritorno del Natale segna che qualcosa si è inceppato per sempre. Con la stessa tensione de “La raggia”, il nuovo romanzo di Mattia Grigolo, pubblicato per Fandango.
La lettura di Gente alla buona di Mattia Grigolo (Fandango, 2024) ci ha portato più volte a confrontare la periferia romana in cui siamo cresciuti e la provincia lombarda in cui è ambientato il romanzo e sempre siamo rimasti colpiti dalla sostanziale somiglianza tra i due mondi: la limitatezza di orizzonti e di prospettive, l’enorme distanza fisica ed emotiva dal centro e la soffocante materialità della vita quotidiana.
In realtà, Gente alla buona non è un romanzo di indagine sociale e non ci sembra esagerato affermare che, in questo nuovo lavoro, al suo autore manchi l’interesse per la ricognizione storica e politica: più che a quella restituita con immenso lavoro di ricerca e scavo nelle sue dinamiche sociali e politiche in Prima di noi di Giorgio Fontana, più che a quella traslata del Serruchón ne La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda (per tacer di quella manzoniana), la provincia lombarda descritta da Grigolo fa pensare alle Fiandre diafane e nebbiose di Bruges-la-Morta di Georges Rodenbach.
Sorge il dubbio che il mondo di Gente alla buona sia una proiezione di quello interiore dell’autore e che Grigolo abbia incarnato i propri traumi e le proprie tensioni nei personaggi, i cui modelli ha trovato già pronti negli abitanti del suo paese.
Durante la presentazione del libro all’Oblomov di Berlino lo scorso 12 aprile, Grigolo ha confermato di essersi ispirato largamente agli abitanti del suo paese per foggiare i personaggi del romanzo e con grande onestà ha espresso il timore di non essere accolto del tutto benignamente nella prossima visita alla terra natìa. Non gli auguriamo certo la stessa esperienza in cui è incappato lo scrittore francese Pierre Jourde, vittima di un tentativo di lapidazione da parte degli abitanti del suo paese di origine, Créteil nell’Alvernia, riconosciutisi nei personaggi del suo potentissimo (e consigliatissimo) romanzo Pays perdu (L’Esprit des péninsules, 2003; pubblicato in Italia nel 2019 da Prehistorica con il titolo di Paese perduto nella traduzione di Claudio Galderisi). Jourde, studioso di Joris-Karl Huysmans e curatore dell’edizione delle sue opere per Gallimard, si è salvato solo grazie al suo passato da pugile: prendendo a pugni i suoi avversari.
Gente alla buona segue la linea tracciata da Grigolo con la sua novella d’esordio La raggia (qui la recensione apparsa su questa testata).
In entrambe le opere abbiamo un contesto di emarginazione ed espulsione dalla comunità attraverso un atto di violenza che rimbalza da una generazione all’altra. Con riferimento al meccanismo vittimario girardiano, quest’atto di violenza però non sana le lacerazioni interne alla comunità e non offre redenzione.
Ne La raggia l’io narrante è quello del mostro che commette la violenza e che subisce l’espulsione dalla comunità, in Gente alla buona invece, come ammesso dall’autore durante la presentazione berlinese, la funzione del narratore è svolta dal paese, descritto nel romanzo con tratti antropomorfi e a cui Grigolo mette in bocca una lingua scheggiata, ruvida, talvolta saccente, talvolta impacciata, come la voce di un bambino che non capisce fino in fondo quello che racconta.