Uno svizzero in America: come Robert Frank ha rivoluzionato la fotografia

In Arte

Negli anni Cinquanta un giovane fotografo svizzero di belle speranze, Robert Frank, gira l’America con la sua macchina fotografica per provare a raccontare – lui, europeo – quel grande paese. Ne uscirà un libro, The Americans, destinato a cambiare la storia della fotografia. La prefazione era firmata da un amico di eccellenza: Jack Kerouac

 83 fotografie di oltre 27mila scattate tra il 1955 e il 1956, 48 stati attraversati e ritratti in un viaggio attraverso gli Stati Uniti a bordo di una vecchia Ford di seconda mano, mani sul volante, macchina fotografica di piccolo formato in mano. Chissà se tra una tappa e l’altra Robert Frank si rendeva conto che avrebbe sconvolto la futura storia della fotografia.

Gli Americani è il viaggio di un europeo in un Paese che attraversa per la prima volta. Come quando sei sulla spiaggia e ti tuffi per la prima volta

Robert Frank

Svizzero, nato a Zurigo nel 1924 (lo scorso 9 novembre ha sfondato la soglia dei 92 anni), Frank si candidò appena trentenne a una borsa di studio messa in palio dalla John Simon Guggenheim Memorial Foundation per raccontare l’America. Ad accompagnare l’application, anche una lettera di Walker Evans, che Frank, fuggito dalla casa dei genitori e “adottato” dagli Stati Uniti da qualche anno, assunse come proprio maestro, mentre si occupava di fotografia di moda e reportage. I due divennero grandi amici: Evans sosteneva la sua carriera e il suo talento, ma non approvava le amicizie di Frank, che dal 1957 cominciò a frequentare gli esponenti della Beat Generation, in primis Jack Kerouac. Con quest’ultimo collaborò a lungo: gli mostrò le sue fotografie e gli chiese di scriverne qualcosa. Così Kerouac divenne autore della prefazione del libro, a partire dalla prima edizione americana.

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Robert Frank, Funerale, St. Helena, South Carolina, 1955 © Robert Frank da Gli Americani

Che fosse stato o meno l’apporto di un’“istituzione” quale Evans a contribuire alla sua vittoria, Frank rese il risultato della propria esperienza personalissimo, collezionando una serie di fotografie per sua stessa ammissione non pianificate, né composte in anticipo. Frutto di una sorta di istinto, di una libertà concessa dalla macchina fotografica di piccolo formato che portava con sé, insieme a uno sterminato numero di rullini, di equipaggiamento alcolico e del suo accento straniero che lo fecero persino arrestare, nell’autunno del 1955 in Arkansas diretto in Louisiana, sospettato di omicidio.

Robert Frank, Municipio, Reno, Nevada, 1956
Robert Frank, Municipio, Reno, Nevada, 1956 © Robert Frank da Gli Americani

Il racconto che ne nacque, frutto di un editing forsennato, porta con sé lo sguardo «di un europeo – spiega Alessandra Mauro, direttore artistico di Fondazione Forma –  con tutta la distanza e la consapevolezza che uno straniero deve avere, un misto di meraviglia e di pensiero. Ha inaugurato un modo nuovo di vedere, utilizzare la fotografia, pur avendo questa distanza, che senza dubbio, da Frank in poi, è stata la distanza del fotografo». Un modo di sentirsi estraneo e dunque partecipe del mondo. Un modo di vedere talmente inedito che la prima versione del libro fu pubblicata nel 1958 dal francese Robert Delpire con il titolo Les Américains, perché gli editori americani non erano ancora pronti per quei tagli obliqui, apparentemente casuali, fotografie sfocate, sporche, imprecise rispetto all’estetica che fino ad allora si era imposta. Tanto che sia Life, sia Magnum, lo rifiutarono più volte.

Alla Galleria Forma Meravigli, è in mostra fino a febbraio la collezione completa de Gli Americani, in una serie di stampe vintage, tutte firmate dall’autore e prese in prestito dalla Maison Européenne de la Photographie di Parigi. Insieme, un focus sul viaggio editoriale del libro e la ristampa di Contrasto, che segue il modello della riedizione tedesca del 2008. Una sequenza quasi cinematografica – negli anni successivi Frank si dedicò alle pellicole –, che nacque insieme a Delpire, di fotografie in bianco e nero, senza ulteriori didascalie, se non l’annotazione del luogo ritratto. «Per produrre un autentico documento contemporaneo – scrisse Frank, quando fece domanda per la borsa di studio – l’impatto visivo dovrebbe essere tale da annullare la spiegazione».
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Sequenza quanto più possibile rispettata nell’allestimento della mostra curata da Forma, che, spiega Mauro, «segue delle indicazioni e delle possibili assonanze, soprattutto visive, come nei sogni. Si va da un’immagine all’altra per vicinanza: a volte si tratta di assonanze grafiche, a volte di risonanze interne all’autore». In alcuni “momenti” è più evidente, come nel caso di un’automobile parcheggiata all’ombra di due palme californiane, ricoperta da un telo che riflette la luce del sole, preceduta nella sequenza da una fotografia scattata in Florida, in cui un’automobile sfreccia sullo sfondo, in un movimento che contrasta con la calma di un gruppo di anziani che attendono e riposano su due panchine. Seguite da un’immagine scattata in Arizona, in cui a essere coperto da un telo è il cadavere frutto di un incidente automobilistico. E dopo, ancora, una strada notturna, due fari che si scorgono in lontananza.

Robert Frank, Ranch market, Hollywood, 1955-56 © Robert Frank da Gli Americani
Robert Frank, Ranch market, Hollywood, 1955-56 © Robert Frank da Gli Americani

Più avanti, sfogliando le pagine del libro, la croce impugnata da un prete vestito di bianco che prega in ginocchio sulla sponda del Mississippi in Louisiana, richiama quella che la statua di San Francesco solleva a Los Angeles, a guida dei viaggiatori, seguita dalle tre croci di un cimitero improvvisato sul ciglio della Strada 91 in Idaho, a memoria di un altro incidente. E poi ci sono motivi ricorrenti, come quello della bandiera americana. «Mi piacciono le grosse bandiere – disse Frank in un’intervista di Nicholas Dawidoff per il NYT – Qui [in America] le persone ne sono così fiere. In altri Paesi nessuno è così orgoglioso della propria bandiera». Un Paese ben diverso dalla Svizzera dove Frank era nato, e da tanti altri: «A Parigi vedi persone di origine africana sulla metropolitana, e sono africani. In America sono americani. Non c’è altro posto come questo». E poi televisioni, jukeboxes…

Robert Frank, Comizio politico, Chicago, 1956
Robert Frank, Comizio politico, Chicago, 1956 © Robert Frank da Gli Americani

Il viaggio cominciò nell’estate ’55. La primissima tappa fu il Michigan, con le fabbriche Ford di Detroit. Un inferno di caldo e frastuono. E poi alla ricerca di uomini e donne che chiunque avrebbe considerato insignificanti, “derubati” della propria immagine in momenti privati e spesso senza che nemmeno se ne accorgessero. Frank, definito da Kerouac nella prefazione al libro «svizzero, discreto, carino», prendeva le immagini che gli servivano, e poi scappava via: voleva mostrare uno spaccato della popolazione americana in modo che lui stesso voleva «semplice e privo di confusione», senza la pretesa di comprenderla tutta, nella sua interezza, con uno scopo quasi più artistico che documentario. Un modo di guardare che venne compreso pian piano e che poi venne seguito da tantissimi. «La fotografia americana – spiega ancora Mauro – deve moltissimo a Robert Frank: tanti fotografi americani che hanno seguito le sue orme».

Robert Frank, scrisse ancora Kerouac, «ha estratto una poesia triste dal cuore dell’America e l’ha fissata sulla pellicola, così è entrato a fare parte della compagnia dei grandi poeti tragici del mondo. […] Chi non ama queste immagini, non ama la poesia, capito?».

Credo che alla gente piaccia il libro perché mostra loro quello che pensano, ma di cui non parlano

Robert Frank

 

 Gli Americani di Robert Frank, a cura di Alessandra Mauro, Milano, Galleria Forma Meravigli, fino al 19 febbraio 2017.

Immagine di copertina: Robert Frank, Rodeo, Detroit, Michigan, 1955 © Robert Frank da Gli Americani

 

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