La magia di Aterballetto

In Teatro

I danzatori di Aterballetto tornano al Piccolo con Tempesta, di evidente ispirazione shakespeariana: abbiamo intervistato il coreografo della compagnia, Giuseppe Spota, e il drammaturgo Pasquale Plastino

Torna in scena al Piccolo Teatro Strehler la magia di Aterballetto, quest’anno vestita della magia della Tempesta shakespeariana. Nel teatro dedicato al regista che ne fu il padre italiano, il coreografo Giuseppe Spota mette in scena la versione in danza di un testo che è l’incoronazione drammaturgica di Shakespeare. La Fondazione Nazionale della danza, che dall’Emilia Romagna porta a Milano ogni anno dal 2012 un frammento della sua produzione contemporanea, torna dal 12 al 14 giugno con un unico “balletto a serata” che segna per la compagnia un avvicinamento al teatro, attraverso l’approccio a un testo appartenente alla tradizione della prosa. A rileggere e rielaborare il dramma shakespeariano, insieme a Spota, lo sceneggiatore Pasquale Plastino, che dal cinema e con una grande passione per la danza (la sua prima collaborazione drammaturgica è con Mauro Bigonzetti ne I Fratelli per lo Stuttgart Ballet) si presta alla scrittura di una traccia che delinei le forme della storia e della narrazione che Aterballetto traduce in movimento. Le musiche sono originali e composte dal frontman dei Negramaro Giuliano Sangiorgi, che dice “ho creato un’installazione di musica, all’interno della quale i corpi diventano essi stessi dialogo”. Così, anche quest’anno, i corpi dei quindici danzatori della compagnia possono far prendere forma a un racconto che ha l’anima del teatro e l’aspetto etereo del balletto. Ne abbiamo parlato con coreografo e drammaturgo, Giuseppe Spota e Pasquale Plastino, per farci introdurre all’isola di Prospero e Miranda, un padre e una figlia che riscatteranno qualsiasi vendetta di Shakespeare con il perdono.

 

Da dove è nata l’idea di mettere in scena la Tempesta di Shakespeare? Qual è stato il processo drammaturgico della scrittura?
G: Quando la direzione di Aterballetto un anno e mezzo fa mi ha proposto di fare un balletto a serata, io ho iniziato a fare una ricerca: avevo tre titoli in mente. La Tempesta era uno di questi e mi affascinava per la vicenda e per il tipo di narrazione. Mi interessava proprio per il fatto che non ci fossero troppi drammi, perché è l’ultimo testo di Shakespeare e a differenza degli altri qui la storia si risolve positivamente. Al momento della scelta ho optato per una sceneggiatura vera e propria, con una narrazione da seguire.

P: Tempesta era un’opera che ispirava a Giuseppe un certo tipo di immagine, cosa che per un coreografo può contare molto più del soggetto, ma allo stesso tempo è uno dei testi più importanti della storia del teatro, affrontato da registi come Peter Brook e dallo stesso Giorgio Strehler. La vera difficoltà è stata quella di portare in scena l’ultimo testo che Shakespeare scrisse prima di morire, uno degli unici ad avere un happy end. È un testo della vecchiaia, in cui l’autore ricompatta alcuni elementi, difficile da ricreare attraverso il linguaggio della danza, che per definizione è astratto. Ed è per questo che c’è stato bisogno della figura di un drammaturgo, per dare la possibilità alla coreografia e a Giuseppe di sviluppare delle emozioni e di raccontare, seguendo un canovaccio, la storia della Tempesta, senza allontanarsi troppo dal testo o perdersi nell’astrazione.

 

Pasquale, come è stato scrivere un testo per la danza? E come ti sei confrontato con Shakespeare?
P: Io oggi lavoro soprattutto per il cinema, che si avvale sempre della parola oltre che dell’immagine, mentre la danza è ancora più difficile perché tutto quello che deve essere raccontato, deve essere suggerito, non ha la possibilità della parola ma solo quella del gesto. Quindi, per sparigliare un po’ le carte, mi è venuto in mente un escamotage quasi cinematografico, perché ho creato una sorta di prequel. Nel secondo atto dell’opera di Shakespeare, infatti, Miranda chiede al padre come sono arrivati sull’isola e il padre risponde con un monologo lunghissimo in cui le racconta la loro storia. Perciò mi sono chiesto perché non iniziare lo spettacolo fin dall’inizio con questo racconto e con queste immagini che possono accompagnare a quello che è l’inizio della Tempesta di Shakespeare, che per noi arriva a metà spettacolo.

Prove dello spettacolo “Tempesta”, coreografia di Giuseppe Spota – © Viola Berlanda

 

Come è nata la vostra collaborazione? E quella con Giuliano Sangiorgi per la musica?
G: La collaborazione artistica con Pasquale è nata perché tra noi è subito scattato un meccanismo di intesa e connessione che con altri non era nato e che invece ci ha fatti lavorare subito bene. Abbiamo sviluppato insieme un lavoro profondo e bellissimo, fatto di un dialogo continuo, simile a un ping pong. Per quanto riguarda la musica, invece, per me Giuliano è sempre stato un artista completo, che scrive, compone e canta: ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto lavorare con lui e ho voluto intraprendere questa sfida. Non volevo musiche troppo complesse, volevo una composizione che non fosse pesante, come non lo è la storia. E così ho chiamato lui.

 

Qual è stato il lavoro sulla musica originale?
G: La musica è venuta di pari passo alla drammaturgia. Come nella drammaturgia abbiamo cambiato alcuni passaggi, così è avvenuto nella stesura della parte musicale. C’è stato un continuo confronto, anche perché io avevo l’esigenza che la musica seguisse l’organizzazione dei quadri in cui ho suddiviso il balletto. La composizione rimane unica ma la musica cambia di ritmo e di atmosfera in base al quadro. Ho chiesto infatti a Giuliano di comporre qualcosa che rendesse il paesaggio sonoro dello spettacolo. Per ogni personaggio lui ha creato dei suoni che sono immediatamente riconoscibili e associabili a ciascun carattere, ma è anche una composizione ricca di silenzi, che sono in grado di tenere l’attenzione.

Nella fase compositiva ho poi lasciato che Giuliano si esprimesse, perché nonostante ci fosse una drammaturgia, un testo da seguire, io volevo che lui seguisse se stesso, esattamente come è riuscito a fare.

 

Qual è stato il vostro approccio al testo e alla composizione?
P: All’inizio lavoravamo discutendo oralmente, dopodiché io passavo alla scrittura, e i risultati venivano confrontati con il pensiero di Giuseppe. Anche la stesura finale è stata poi cambiata nel corso delle prove, con i danzatori, perché la danza è una materia viva. La mia drammaturgia non è stata seguita pedissequamente, però ha dato la possibilità a Giuseppe di spiegare ai danzatori cosa stessero facendo, perché potessero esprimere attraverso il gesto anche gli aspetti più concreti e la psicologia dei personaggi, aiutando moltissimo l’interpretazione. Alla fine è bello vedere come le intenzioni scritte sulla carta, quelle idee un po’ intellettuali e un po’ “loffie”, vengono poi trasformate dalla meraviglia del movimento, dalla bellezza dei danzatori e della danza in generale.

G: Per prepararmi ho passato un anno tra la lettura di libri, la ricerca di immagini e di testi che mi ispirassero. Quello che poi ho fatto nella coreografia è stato il perenne cambiamento sia dei danzatori sia del set: ho cercato di rendere le immagini attraverso la composizione dei corpi e di una scena in continua costruzione. Questo è fondamentale nella danza perché non ha altro mezzo di comunicazione se non quello di incanalare il significato attraverso le immagini e di dare la percezione della situazione attraverso il movimento. Tra l’altro, è stato molto importante per me dare un’idea del tempo: pur rimanendo sempre sull’isola, infatti, la scena si muove principalmente per rendere la sensazione temporale degli anni che passano.

 

Qual è il fulcro della vostra narrazione della Tempesta? E come si sviluppa?
G: La chiave di tutta questa Tempesta è per me la scena del perdono. Di solito da Shakespeare ci aspettiamo sempre una vendetta, un’uccisione, e anche all’inizio della Tempesta questa attesa c’è, ma quello che mi ha affascinato molto è che alla fine, invece, qui trionfa il perdono. In quest’opera c’è un’idea di padre, di re (Prospero), che pur avendo perso il proprio regno si vendica in modo diverso da tutti gli altri personaggi shakespeariani, perché si vendica con l’amore, con il perdono, e regala alla figlia un futuro, quel futuro che appartiene ai giovani.

P: Come dice Giuseppe, il risultato più semplice del testo è che il perdono vale più della vendetta. Tutta la magia di Prospero, che ha voluto portare i suoi nemici sull’isola per potersi vendicare, si risolve alla fine in un nulla di fatto. Viene posta al re la domanda: “non vedi come sono disgraziati, come sono infelici anche i tuoi nemici? Ti interessa davvero vendicarti o non è meglio perdonare?”. Questa è una svolta quasi sentimentale di Shakespeare, perché fa vincere l’amore.

Prove dello spettacolo “Tempesta”, coreografia di Giuseppe Spota – © Viola Berlanda

 

Voi, però, avete anche introdotto un elemento di malinconia alla fine dello spettacolo.
P: Sì, abbiamo voluto introdurre una grande innovazione all’interno del progetto drammaturgico, perché Calibano, che normalmente viene rappresentato come un essere bestiale, noi lo abbiamo voluto rendere innanzitutto un essere plurale, come se fosse la tribù che abita l’isola. In particolare, il nostro Calibano rappresenta una tribù che si fa sottomettere dal potere occidentale, e che nel finale viene lasciata in solitudine. Se tutti gli altri personaggi, infatti, vanno via felici e contenti, Calibano invece rimane, e dopo questa esperienza per lui nulla sarà più come prima. Abbiamo voluto lasciare lo spettacolo con un punto interrogativo sulla sorte di Calibano, e con una grande malinconia.

G: Come dice Pasquale, questa solitudine in cui viene abbandonato Calibano è l’unico tocco malinconico dello spettacolo. Ma la sua è una solitudine che può rappresentare anche una fortuna, perché non c’è un seguito scritto, e dunque può accadere qualsiasi cosa.

 

Fotografie © Viola Berlanda

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