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In Arte

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Federico Giani, co-curatore di «1961.Tempo di Continuità», in un appassionante dialogo con Arnaldo Pomodoro, alla riscoperta degli anni ’60 tra Milano e gli USA

Arnaldo Pomodoro è uno degli artisti italiani più conosciuti in patria e all’estero. Le sue sculture sono sparse per tutto il mondo: dal MoMA di New York al Cortile della Pigna dei Musei Vaticani, dalle piazze di Milano, Tokyo e Brisbane, ai giardini di Copenhagen. Nonostante gli ottantotto anni compiuti, ogni giorno è al lavoro nel suo studio di via Vigevano, ma è anche felice di ricostruire con noi gli anni Sessanta a Milano, indagati ora dalla mostra 1961. Tempo di Continuità, in corso alla Fondazione Arnaldo Pomodoro.

Com’era Milano per chi come lei, nato nel 1926 a Morciano di Romagna, passata l’infanzia e la prima giovinezza fra Pesaro e il Montefeltro, ci è arrivato a metà degli anni Cinquanta? Quali gli incontri fondamentali di quel periodo?

Sono arrivato a Milano nel 1954. La città allora era ancora piena di macerie, segnata dalle devastazioni della guerra, ma estremamente viva e vitale, proiettata verso la ricostruzione e verso una nuova cultura, europea e internazionale. Una delle prime persone che ho incontrato era Lucio Fontana: il mio primo studio era vicino al suo in corso Monforte. Fontana è stato una figura unica e fondamentale per il mondo dell’arte: si è confrontato con le poetiche e i movimenti che hanno attraversato il Novecento, era in contatto costante con tanti artisti, maestri affermati e giovani agli esordi, ha dialogato con i grandi architetti del suo tempo. Fu lui a introdurmi nell’ambiente artistico, e in poco tempo anch’io mi ritrovai a frequentare i più importanti architetti, Giò Ponti e lo Studio BBPR, artisti più maturi e i miei coetanei: Enrico Baj, Sergio Dangelo, Ugo Mulas, Gianni Dova, Enrico Castellani… Milano in quegli anni era anche una città di critici e scrittori, miti delle mie letture giovanili che diventavano presenze concrete: Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto, Raffaele Carrieri.

arnaldo pomodoro mostra continuità

La mostra «1961. Tempo di Continuità» ricostruisce un capitolo poco noto ma importante del suo percorso. A cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta il gruppo Continuità fu un trampolino di lancio per lei e per altri giovani artisti. Come nacque il gruppo? A cosa miravate?

L’esperienza di “Continuità” è stata davvero importante: tra il 1958 e il 1959 ci furono vari incontri con Fontana, Dangelo, Dorazio, Bemporad, Turcato, Novelli, Perilli. Il nome lo inventammo insieme, poi seguirono le prime mostre presentate da Guido Ballo, Giulio Carlo Argan e Franco Russoli, tra Milano, Torino, Parigi, New York e San Francisco. Discutevamo, polemizzavamo, ma per tutti noi il problema era quello di organizzare il segno in modo nuovo, più strutturato. È stato allora che ho cominciato a muovere le mie superfici piane e segniche, a curvarle fino a realizzare la prima Colonna del Viaggiatore che è datata 1959. Ho cominciato a capire dunque che la mia via era muovere la superficie, convessa e concava, con una mia serie varia di segni. Mi ricordo che Guido Ballo li definì «tagli di infinito».

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Giulio Turcato, Luigi Carluccio, Franco Bemporad, Arnaldo e Gio’ Pomodoro alla Mostra Continuità (Galerial d’Arte La Bussola, Torino 1961)

Alla fine degli anni Cinquanta cominciano i suoi viaggi in giro per il mondo, e una delle mete preferite sono certamente gli Stati Uniti. Da dove arriva la decisione di partire? Cosa cercava in America?

Andare in America era un sogno della mia gioventù, e sicuramente la spinta maggiore a partire per gli Stati Uniti è venuta dall’amicizia con Fernanda Pivano e Ettore Sottsass, una coppia stupenda, alla quale devo in gran parte la mia sprovincializzazione. In casa loro, a Milano, ho avuto i primi incontri con i protagonisti della Beat generation: Allen Ginsberg e Gregory Corso in particolare, e poi con artisti, architetti, compositori e anche jazzisti. Volevo conoscere più da vicino gli artisti americani e il loro mondo, e visitare i grandi musei di arte moderna e contemporanea. Su suggerimento di Giulio Carlo Argan e Franco Russoli feci domanda per una borsa di studio Fulbright, la vinsi, e finalmente nel 1959 sbarcai negli Stati Uniti. A San Francisco incontrai Mark Rothko, a Los Angeles Sam Francis, mi spostai a Chicago e Pittsburgh, e infine a New York. Là ebbi l’opportunità di conoscere Louise Nevelson e David Smith, e di visitare gli studi di tutti: Barnett Newman, Franz Kline, Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Andy Warhol…
Sempre a New York, nella saletta di Brancusi al MoMA, ho avuto la mia “folgorazione”: l’essenzialità delle sue sculture mi diede una tale emozione che provai un desiderio distruttivo. Così cominciai a immaginarle come tarlate, corrose, e mi venne l’idea di inserire tutti i miei segni, ispirati da Klee, all’interno dei solidi della geometria. Klee e Brancusi sono i miei padri putativi.
Dopo, sono tornato spesso negli Stati Uniti, anche con incarichi accademici a Standford, Berkeley e al Mills College di Oakland. L’insegnamento è stata un’esperienza molto stimolante: gli studenti venivano a trovarmi nel mio studio in ogni momento, e io con loro cercavo di ricreare un clima da “bottega”, fatto di confronto, sperimentazione e progettazione in comune.

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Arnaldo Pomodoro, Colonna del viaggiatore 1960-61.

La Milano di oggi regge il confronto con quella di ieri? Sulla carta resta il contesto culturale più vivo all’interno del panorama italiano, in grado di confrontarsi con le proposte che arrivano dall’estero, ma è veramente così?

Milano oggi non è più la città eccitante e viva degli anni Cinquanta, è meno internazionale e meno curiosa verso il nuovo. È venuto meno quel clima straordinario fatto di incontri, scambi, collaborazioni, quella osmosi fra i diversi ambiti disciplinari che avevano caratterizzato la vita culturale della nostra città. Più in generale stiamo attraversando un periodo di trasformazione del mondo che coinvolge anche l’arte e la cultura. Assistiamo a continui capovolgimenti di senso e ad una frammentazione di linguaggi: emerge una mancanza di certezze, una problematicità che, però, anziché essere una perdita di dimensione, potrebbe piuttosto significare vitalità della ricerca e nuovi processi di conoscenza. È questo che mi auguro, anche per Milano.

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Gastone Novelli, Interpretazione dell’erotomania, 1960, photo Studio Boschetti

In questo contesto, dopo due anni di attività del suo nuovo spazio espositivo di via Vigevano 9, che ruolo assume la Fondazione Arnaldo Pomodoro? Quali sono i suoi obiettivi e cos’ha in programma per il 2015?

Con l’apertura della nuova sede di via Vigevano ci siamo resi conto di quanto grande sia il bisogno di promuovere una conoscenza autentica dei fatti dell’arte, piuttosto che inseguire iniziative roboanti, ma di poco contenuto. Raccogliere questa esigenza di documentazione, di approfondimento, di studio, è uno degli obiettivi della Fondazione che mi auguro possa continuare a operare in questa direzione.
Per l’anno prossimo abbiamo in programma due collettive: la prima, a cura di Marco Meneguzzo, vedrà cinque giovani scultori confrontarsi con il tema di EXPO, “nutrire il pianeta”, mentre la seconda renderà omaggio a Giovanni Carandente e alla mostra Sculture nella città organizzata a Spoleto nel 1962, un evento unico che oggi sarebbe irripetibile. Sempre in occasione di EXPO abbiamo organizzato una serie di appuntamenti per visitare Ingresso nel labirinto, il mio grande environment costruito negli spazi sotterranei della ex Riva Calzoni di via Solari 35, già sede espositiva della Fondazione.

“1961. Tempo di Continuità”, a cura di Flaminio Gualdoni e Federico Maria Giani, Fondazione Arnaldo Pomodoro, fino al 19 dicembre 2014.

Foto: © Nicola Gnesi per Fondazione Henraux, 2014.

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