Viaggio in Oriente con Jia Zhang-Ke e Gus Van Sant

In Cinema

La Cina degli ultimi (e anche prossimi) 25 anni, tra amicizia e amore, nostalgia e modernismo, in “Al di là delle montagne”, il nuovo film, imperfetto e vitale, dell’autore che dieci anni fa vinse a Venezia con “Still Life”. Il regista americano fa incontrare Matthew McConaughey e Ken Watanabe a Aokigahara, la “Foresta dei sogni” (titolo italiano del film) e dei suicidi, non lontana da Tokyo, dove molti scelgono di porre fine alla propria vita. Un po’ fiaba, un po’ horror, un po’ racconto immaginifico, e filosofico

È un’opera imperfetta e vitale l’ultimo film del cinese Jia Zhang-ke, già vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2006 con Still life. Anche là veniva raccontata la Cina alle prese con un impetuoso processo di modernizzazione e occidentalizzazione, dai risvolti spesso drammatici: attraverso la costruzione della diga delle Tre gole venivano mostrati gli effetti tragici – ma anche surreali, da vera e propria pantomima dell’assurdo – di uno sconvolgimento profondo del panorama naturale e di quello umano insieme.

In Al di là delle montagne questo passaggio dal vecchio al nuovo, dalla tradizione all’innovazione, dalla convinzione di possedere un proprio posto nel mondo alla sensazione dello sradicamento più totale, è al centro di un’opera che si presenta rigidamente divisa in tre parti: tre episodi ambientati rispettivamente nel 1999, nel 2014 e nel 2025, dove tutto cambia per i protagonisti e per la Cina. E giustamente cambia anche lo sguardo del regista, che passa da un “povero”, ristretto formato 4:3, a un immenso e smagliante cinemascope.

1999: a Fenyiang (la città dove Jia Zhang-ke è nato e cresciuto) tre ventenni ballano scatenati una canzone disco dei Pet Shop Boys dal titolo fin troppo profetico: Go West. I due giovanotti amano la stessa ragazza, Tao (Zhao Tao, moglie e musa del regista, protagonista di quasi tutti i suoi film) ed entrambi cercano di conquistarla, ognuno a modo suo: Zhang con l’arrogante potere di una macchina rossa nuova fiammante e l’irruenza di un impaziente sogno di ricchezza capitalistica; Lianzi con lo sguardo buono e l’ostentata onestà delle sue mani da minatore, perennemente nere di carbone. Tao sceglierà Zhang, il futuro, l’occidente, e lo sposerà, mettendo al mondo un figlio e accettando di chiamarlo Dollar.

2014: siamo sempre a Fenyang, e i nodi vengono al pettine, le sconfitte appaiono in tutta la loro drammatica evidenza. Lianzi ricompare dopo una lunga assenza, ancora più povero e malato di cancro; Tao si aggira mesta in una casa lussuosa e vuota, dove è rimasta sola dopo la separazione da Zhang, il quale – sempre più cinico e ricco – appare solo sotto forma di una voce lontana e sprezzante, che comunica una decisione ormai presa: un viaggio senza ritorno verso la terra promessa dall’altra parte dell’oceano, l’Australia.

2025: eccoci nel quinto continente, per il terzo episodio, il meno riuscito. Il protagonista diventa Dollar, ragazzo cinese cresciuto parlando in inglese, lontano da sua madre e dalla sua cultura, accanto a un padre precocemente invecchiato e insoddisfatto, nonostante i dollari accumulati e le pistole. Sì, tante pistole disseminate in tutta la casa, oggetti del desiderio a lungo vagheggiati e finalmente conquistati. Ennesimo simbolo di potenza e di benessere. Proprio a un ingrigito Zhang il regista affida una delle battute più significative del film, quella in cui l’uomo giocherella come un bambino con le sue armi vere, come fossero giocattoli, e davanti allo sguardo stupefatto di un’ospite spiega che la libertà è davvero un grande abbaglio. In Cina non c’è la libertà di portare armi. Lui avrebbe tanto voluto possedere una pistola, ma non aveva mai potuto soddisfare tale desiderio. In Australia invece sei libero di comprarti tutte le armi che vuoi, e così lui ha fatto. Si è letteralmente riempito la casa di armi. Del tutto inutili. Come dice lui stesso: non gli servono a nulla, perché non ha più nessuno a cui sparare.

Strano modo di parlare della libertà, ma il cinema di Jia Zhang-ke è proprio così: strano, intenso, affascinante e rischioso. In alcuni momenti fin troppo pieno (di simboli, di sottolineature, di spiegazioni e didascalie) in altri magnificamente vuoto, capace di offrire allo spettatore stimoli intensi, paradossi fecondi, o, semplicemente emozioni.

Al di là delle montagne di Jia Zhang-Ke, con Zhao Tao, Yi Zhang, Jing Dong Liang

Marina Visentin

IL SOGNO DI MATTHEW NEL MARE D’ALBERI

Appena fuori Tokyo, alle pendici del monte Fuji, esiste una foresta un po’ particolare, così fitta di arbusti e vegetazione che persino il vento fatica ad insinuarsi, donando un senso di irreale calma e silenzio ad Aokigahara, in giapponese letteralmente “mare di alberi”, che è poi il titolo dell’ultimo lavoro di Gus Van SantThe sea of trees. Ma a rendere celebre il luogo sono i pellegrinaggi compiuti da centinaia di suicidi, che scelgono questa foresta come palcoscenico del loro gesto estremo. Questo l’incipit, a metà strada fra l’horror e la fiaba, del film, in italiano La foresta dei sogni, titolo che reca in sé l’anticipazione di quel che accadrà al protagonista, che in un luogo così tetro riuscirà comunque a sognare, o forse immaginare.

Un americano (Matthew McConaughey) e un giapponese (Ken Watanabe) si conoscono nella foresta e, dopo aver sbrigato le formalità di rito (chi sei, da dove vieni, perché ti vuoi suicidare), riflettono sull’utilità, e il danno, dell’uscire da quel limbo. Un incontro che è anche uno scontro di civiltà, dato che il suicidio è una pratica legata alla cultura e all’epoca storica, prima che alle inclinazioni personali. E così l’opera diventa anche un’analisi critica della mortale ossessione del Sol Levante, paese in cui solo pochi anni fa Il manuale del perfetto suicidio di Wataru Tsurumi fu campione d’incassi, e in cui una tradizione millenaria considera il suicidio un rituale sacro, basti pensare al seppuku di Yukio Mishima.

Interessante anche il confronto fra le motivazioni che spingono i due al gesto: se McConaughey non riesce più a reggere il peso di un rapporto matrimoniale alla deriva (lei è Naomi Watts), Watanabe non trova pace dopo un declassamento lavorativo dovuto ad una sua negligenza. Un gesto di sfrenato egoismo, dettato solo dalla contingenza di un amore burrascoso, contro quello di un uomo che si considera in primis cittadino e non può sopportare di non essere più fedele servitore del proprio Stato.

The sea of trees procede poeticamente come una sequenza di haiku, in una successione di situazioni e interrogativi filosofici intorno al rapporto decadente amore-morte. La ben poco baudelairiana corrispondenza tra il purgatorio cristiano e la foresta dei suicidi come luogo di passaggio, anticipa un topos dantesco della pellicola di Van Sant, che senza premeditazione stringe l’occhiolino alla trasformazione in alberi di chi si tolse la vita nell’Inferno. Ottima anche la scelta registica di punire i due personaggi, rei di aver rifiutato l’esistenza, con l’elemento naturale più squisitamente legato alla vita e alla rinascita, l’acqua, mostrata in tutta la sua forza dirompente attraverso piogge torrenziali ed esondazioni.

Un’opera anomala nella filmografia di Gus Van Sant, accolta con fischi e ululati a Cannes 2015, dove è stata presentata in concorso. Una reazione decisamente inaspettata e certamente spropositata, che si può spiegare solo pensando che l’attenzione a questioni (troppo) alte abbia portato il regista a dimenticare una certa coerenza interna, mancando di brillantezza narrativa. Poco male, forse l’atteggiamento più saggio è quello di chi si dimentica delle formalità e accetta di perdersi, insieme a McConaughey, in questo labirinto mentale.

La foresta dei sogni, di Gus Van Sant, con Matthew McConaughey, Ken Watanabe, Naomi Watts

Erica Belluzzi

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