Works and days: dalla tribalità alla robotica

In Teatro

In mezzo all’artificialità del teatro gli FC Bergman ricreano un ambiente naturale con una scena minimalista di assi, tessuti, corde e piccoli dettagli. Non c’è terriccio sul palco, ma se ne percepisce la presenza, protagonista quanto l’umano.

Works and days, prima nazionale al Piccolo Teatro Strehler dal 28 al 30 maggio, è un racconto senza parole eppure chiarissimo, sostenuto da un coro di attori-danzatori straordinari che restituiscono un senso di comunità unita, facendo comunque emergere la personalità di ogni individuo che la compone. Sono proprio i corpi a dare voce e ritmo alla narrazione, a volte in collaborazione coi musicisti, a volte in contrasto.

Il tema dello spettacolo, ovvero il rapporto dell’uomo con la natura, è chiaro fin dalla prima scena che stabilisce la grammatica dello spettacolo, preannunciando l’utilizzo di metafore e simbologia, caricando ogni scena di aspettative e spesso disattendendole con sorprendente maestria narrativa, senza alcuna paura ad attraversare le parti più crudeli di questa storia, bilanciando i momenti più cupi con piccoli dettagli carichi di umorismo e ironia e riempiendo il palco di colori, con delicatezza o esplosioni, dopo le scene più buie.

Gli FC Bergman non indorano però la pillola neanche per un secondo. In questo decennio che sta toccando nuovi picchi negativi rispetto alla crisi ambientale e climatica è una scelta forte e politica quella di iniziare uno spettacolo sul rapporto tra uomo e natura con un atto violento come scardinare le assi del palco con un aratro. Mette in chiaro fin dal primo minuto che lo spettacolo non parla di un’evoluzione spontanea dell’umanità fianco a fianco alla natura, come viene sempre insegnato secondo la narrazione storica istituzionale, ma di un’evoluzione compiuta e guidata dall’uomo sulle spalle della natura.

La spinta umana è chiara in ogni scena, o quadro, dello spettacolo, che ripropone i momenti salienti dello sviluppo antropico, senza mai romanticizzarlo, sia in maniera esplicita (non sono pochi i momenti in cui scorre del sangue, allegorico o grafico) che in maniera simbolica, come durante la costruzione della prima abitazione, in cui il rimando alla croce di Cristo sul calvario è un potente e indelebile avvertimento per il futuro.

Works and days esplora anche lo sfruttamento dell’uomo sugli animali, con la partecipazione di una gallina viva nelle prime scene, e poi uccisa (teatralmente), e con un animale allegorico fatto di coperte grigie e addomesticato dalla comunità, che da alla luce un figlio da cui viene separato, e che viene poi ucciso e utilizzato fino all’osso. È l’inizio dell’impulso umano di schiacciare un animale per migliorare la propria situazione, iniziando così un ciclo continuo di allevamenti per la morte, in cui l’uomo non solo sopravvive ma evolve. Fino ad arrivare alla rivoluzione industriale con l’introduzione della macchina a vapore, vero e proprio personaggio in scena.

Quasi un deus ex machina, sposta l’uomo dal contatto con la terra che non dava più abbastanza frutti, e lo porta a quello col ferro e col fuoco. La pelle viva e nuda degli attori danzatori si unisce con il metallo luccicante della macchina col calore della luce delle fiamme, riducendo al minimo le differenze tra questi meccanismi belli, efficienti e complessi: i corpi umani e le macchine industriali. Con il loro arrivo il paradigma che vede il lavoro e la fatica del lavoro dell’uomo come primo e unico motore per il progresso viene ribaltato, permettendo agli otto corpi in scena di fermarsi, per la prima volta, e di godersi quasi come divinità uno strano futuro pieno di colori e ananas esplosivi, in convivenza con robot amichevoli.

Sul palco per tutto il tempo ad accompagnare gli attori danzatori Joachim Badenhorst e Sean Carpio, due musicisti polistrumentisti che hanno inventato alcuni strumenti apposta per Works and days e composto le musiche originali, sulle quali improvvisano ad ogni replica, sono spesso fisicamente partecipi ai movimenti degli attori e dei danzatori, sono parte della comunità che piano piano progredisce.

Eppure, sono diversi, sono commentatori, osservatori, occhi interni ed esterni. Inizialmente parte integrante della coreografia, con strumenti semplici, primordiali, prendono poi un ruolo sempre più a margine, letteralmente sul limite del palcoscenico, con strumenti più complessi. Sempre presenti ma più distaccati, meno coinvolti, meno cercati. Che i due musicisti rappresentino forse il ruolo dell’arte e degli artisti nella storia dell’uomo?

Foto: Masiar Pasquali

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