Nato per due terzi ai tempi della pandemia e registrato a porte chiuse, il Trittico Weill in scena alla Scala riunisce ora tre momenti della collaborazione tra Kurt Weill e Bertolt Brecht tra il 1927 e il 1933 e disegna un mondo tra cinismo, sfruttamento e dio denaro terribilmente attuale. Ottimo cast per la direzione di Riccardo Chailly e la regia di Irina Brook
Più che un Trittico Kurt Weill, quello cui si assiste alla Scala dal 17 al 30 maggio è un’antologia di presagi. Da brivido. Di che parlano, infatti, Die sieben Todsünden, Mahagonny Songspiel e The Songs of Happy End se non di quello che viviamo oggi, qui e ora? Speriamo non domani. Sono passati quasi esattamente cent’anni da quando si è formata, nel 1927 e per poco più (fino al ’33), una delle più clamorose coppie librettista-musicista dopo Da Ponte-Mozart. Ma nella vita vera è cambiato qualcosa? No, anzi. In pochi mesi si sono raggrumati alcuni dei più sinistri paradossi che Bertolt Brecht e Kurt Weill avevano immaginato, nel loro sguardo prodigiosamente lungo, ciascuno nel suo. Leggere, vedere e ascoltare per credere.
La prima opera, I Sette peccati capitali, è una cinica liturgia del mondo capovolto. Protagoniste sono due sorelle, Anna I e Anna II, una cantante, l’altra danzattrice con due T (Die sieben Todsünden nasce come un balletto sghembo), che lasciano la roulotte in cui vivono con la famiglia, in Louisiana, e cercano fortuna in giro per le sette chiese. In realtà sei e non molto chiese: Memphis, Los Angeles, Filadelfia, Boston, Baltimora e San Francisco. Città lontane, ciascuna mecca di qualcosa di diverso, in cui cercare “opportunità” – si dice così, vero? – che non facciamo fatica a immaginare.
Anna I (Alma Sadé, soprano, bravissima) canta e racconta quel che Anna II (Lauren Michelle, per ora muta, poi soprano non meno brillante), è poco gentilmente invitata a fare per mettere insieme i soldi necessari a costruire una casetta in riva al Mississippi. E a farlo entro biblici sette anni, please. Anna II ha i numeri, “bella e un po’ pazza”, insomma inquieta e imprevedibile. Anna I ha la “testa a posto”, è “un tipo pratico” e deve incoraggiare, guidare, frenare la sorella a seconda dei casi, tutti regolati dai sette peccati capitali. Purché riletti con senso pratico.
Accidia, Superbia, Ira, Gola, Lussuria, Avarizia e Invidia non sono divieti infrangibili, se salvo è l’obiettivo: il biglietto verde. La Famiglia (due tenori, un baritono e un basso, la madre en travesti, grottesca come merita, con pancia e parrucca) sanno che cosa chiedere a Dio: “che dia loro forza e gioia affinché non pecchino contro le leggi che rendono ricchi e felici”. Lieto fine? Mah: le sorelle cantano il ritorno alla casetta in Lousiana, ma sarà vero? O è la solita roulotte della sconfitta?
Il secondo titolo, Mahagonny Songspiel, è la storia senza trama di una città in cui tutti, Charlie e Billy (tenori), Bobby e Jimmy (bassi), Jessie e Bessie (soubrettes), sono felici di vivere perché “l’aria è fresca e pulita”, “si trova carne di cavallo e di donna”, “whisky e tavoli da gioco”, dove molto si perde e un po’ si vince, all’inizio. Sotto la “Luna dell’Alabama”, canzone leggendaria e “bluesy” per cui Brecht e Weill sono passati alla storia e fischiettati dal mondo, la strada è sempre quella: “dove trovare il prossimo piccolo dollaro”, anche se il prezzo è “vendere la pelle”. Ma poi le cose si guastano: “non c’è whisky in questa città”, “non c’è un bar in cui sedersi”, non c’è nemmeno un “telefono”. Soluzione: “andiamo a Benares, dove splende il sole”. Ma “Benares è stata distrutta”, anzi “punita” da un terremoto, perché anche a Mahagonny si crede in Dio. Che infine arriva (Dio) a rimproverare tutti dei loro vergognosi eccessi. Bene, così metterà i peccatori in riga. Eh, no, perché “sapete”, dice Bessie tirando fuori la lingua al pubblico, “Mahagonny non è un luogo, è solo una parola inventata”. Non ci sono paradisi in terra, solo inferni. Ma per qualcuno no, se i dollari li ha. Meglio se a miliardi e stende la mano destra.
Il terzo titolo del Trittico Weill è il perfetto finale: The Songs of Happy End. Che non è un’opera, ma una raccolta di canzoni tirate da una commedia in tre atti sempre verseggiata da Brecht. Qui la luna è sopra Bilbao. Se tutto per Bertolt avviene in America, i luoghi “altri” sono sempre esotici, almeno nel nome: Benares, Bilbao, Burma, Rangoon, Mandalaya, Surabaya.
Nella Ballata di Lily dell’Inferno, ai ragazzi che (forse) si preoccupano per il futuro, la risposta è: “non ho bisogno di caricarmi di dispiaceri / il domani è niente, per parlar schietto/ potete mettervelo dove vi pare!”. E a chiusura, le “Canzoni del Lieto Fine” hanno in serbo il coro più degno: “Osanna Rockefeller / Osanna Henry Ford / Osanna acciaio, carbone e petrolio / Osanna il mondo di Dio / Osanna sex appeal / Osanna nobili e signori / Osanna fede e dieci per cento / Osanna il fuoco e la spada”. Era il 1929, a Berlino. Che cosa avevano Bertolt Brecht e Kurt Weill? La sfera di cristallo? C’è qualcosa che oggi non abbiamo visto e sentito? Qualcosa che non ci terrorizzi per domani?
Lo spettacolo della Scala, grazie ai perfetti accostamenti di Riccardo Chailly, che sulla musica di Kurt Well ha un tocco magico, finisce con un extra che fa a differenza: Youkali, chanson francese che Kurt aveva scritto dopo la fuga dalla Germania nazista, già esule a Parigi, poco prima di attraversare l’oceano verso il paese delle opportunità in cui Bertolt aveva ambientato le sue premonizioni. Ne parlava in una lettera del 25 gennaio 1934 a Lotte Lenya, già sua cantante e poi sua moglie, due volte, mentre lei era, guarda caso, a San Remo. Youkali è un tango-habanera scritto per un’opera apparentemente leggera, Marie Galante, e pubblicata sciolta nel 1935. La canzone, bellissima, che incorona la vena melodica prodigiosa di Weill, sta perfettamente a chiudere e sintetizzare il Trittico in cui Chailly traduce in materia teatrale il quinquennio Brecht-Weill bruscamente spezzato, di fuori e di dentro.
Cos’è Youkali? Un’isola piccola, molto piccola, dove tutto è bello, tutti sono felici, promesse e impegni sono rispettati, al domani si guarda con fiducia. Peccato che Youkali non esista. É l’isola bella che non c’è, ma per qualcuno sì, dove mettere i soldi neri del mondo.
Lo spettacolo della Scala è nato per due terzi al tempo della pandemia. I Sette peccati capitali e Mahagonny sono stati allestiti in spettacoli a porte chiuse (ma registrati e trasmessi, dunque noti) nel 2021. Due pezzi da camera di teatro povero, che Irina Brook aveva congegnato per i tempi bui come quelli raccontati dalle musiche. Rivissuti oggi, con le loro piccole grida di dolore di fronte alle vite grame degli esseri umani e agli insulti alla Terra, sia le une sia gli altri girati in bianco e nero su piccolo schermo a fondo scena, non hanno grande presa né grandi idee registiche.

In compenso, a sorpresa, l’elemento aggiunto del Trittico, i Songs di Happy End, trasfigura tutto lo spettacolo, aggiunge il tocco creativo che mancava, strappa gli applausi a scena aperta e il successo finale. Nel terzo quadro aggiunto nel 2025, Irina Brook ha estratto dal cappello il tocco migliore, paradossalmente muovendo la scena e gli attori con capacità catturante in un’opera che non ha dentro alcuna trama, alcun racconto, alcuna drammaturgia. Misteri del teatro.
Con il terzo aggiunto, lo spettacolo, oltre alla bacchetta davvero weilliana di Chailly, deve ringraziare un cast assolutamente perfetto, da citare tutto per nome e cognome. Oltre ad Alma Sadé e Lauren Michelle, in ordine di applausi, ma non necessariamente di bravura canto-scenica: Wallis Giunta (imperiosa in Happy End), Markus Werba (una certezza sempre), Elliott Carlton Hines (tre parti tutte diverse), Andrew Harris, Matthäus Shmidlechner, Michael Smallwood e Geoffrey Carey, variamente combinati nelle tre parti dello spettacolo e infine raccolti come un gruppo in preghiera, candele in mano nel buio, in un finale toccante perché teatralmente elementare.

Perché lasciare alla fine il titolare del Trittico? Semplicemente perché Kurt Weill è signore e padrone di tutto. Non c’è niente da ripetere sul suo genio nel fare sintesi di Europa e America, di lingua colta, intrattenimento e onda afroamericana montante. Weill, che smise di comporre sinfonie dopo la seconda, giusto nell’anno dei Sette peccati capitali, a Parigi, nel ’33, è il perno attorno al quale gira la musica del Novecento nel consegnarsi alla forma-canzone. Nella macchina del tempo della Scala, è la sua musica a insinuarci quel senso di pensosa desolazione che la parola riuscirebbe a descrivere a metà o non descrivere affatto. E questo basta a dire chi, tra gli interpreti del Trittico, da Chailly in giù, con la sua orchestra “corretta” anni Venti-Trenta (chitarra, banjo, sax, bandoneon, percussioni) sia più decisivo nel farlo sentire nostro.
Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala