Fu popolare per soli quattro magici anni, dal 1956 al 1959. Ma anche l’indimenticabile autore di formidabili motivetti, che sono stati il miglior antidoto allo spirito da parrocchietta di cui era impregnata l’Italia canora di quegli anni: “Eri piccola”, “Che bambola”, “Buona sera signorina”. Nasceva cent’anni fa ma non li dimostra
Cent’anni senza dimostrarli. Nasceva a Torino cent’anni fa, il 23 novembre 1921, Ferdinando Buscaglione in arte Fred, figlio di un imbianchino e di una portinaia che suonava il pianoforte e nipote di una sciantosa della Belle Époque (Anna Buscaglione in arte Anita Di Landa, che portò al successo un classico come La spagnola). Con quell’aspetto da Clark Gable dei poveri e quell’inusuale recitar cantando, con quel suo fare scivolare la voce su ritmiche jazz assai di rado assaporate dalle nostre parti (in Voglio scoprir l’America arrivò a citare la frenetica danza di tamburi di Lionel Hampton in Sing sing sing, cavallo di battaglia di Benny Goodman), Fred Buscaglione fu uno dei pochi grandi innovatori-eversori della nostra musica leggera, nei melensi e insopportabili anni Cinquanta. I nostri seriosi cantautori dovrebbero erigergli un monumento: grazie a lui la canzone cominciò ad essere ascoltata, prima ancora che ballata o canticchiata. E la sua ironica e ammiccante America nera, che mostrava in filigrana i bulli aspiranti ammazzasette e le commesse aspiranti pupe delle nostre periferie, fu il migliore degli antidoti allo spirito da parrocchietta di cui era impregnata l’Italia canora di quegli anni.
Assieme al Nando Moriconi di Alberto Sordi che voleva emigrare “nel Kansas City” e alle macchiette ilari di Renato Carosone (Tu vuo’ fa l’americano), Fred mise in burla le mode e le pose d’oltreoceano che da noi cominciavano a trovare proseliti e imitatori: perché sì, gli americani rispetto a un’Italia con le pezze al culo saranno anche stati i padroni del mondo, ma a noi ci scappava da ridere.
Ferdinando Buscaglione, Nando per gli amici e Fred per il pubblico, fu davvero popolare soltanto per un breve periodo: quattro anni magici e logoranti, dal 1956 al 1959. Nel 1955, con quasi vent’anni di gavetta (esordi da dilettante nelle piole torinesi, qualche anno di esibizioni a Cagliari nel 1943-44, militare di leva, con la band di Radio Sardegna che era un’emittente dell’esercito diretta dal giovanissimo ufficiale Jader Jacobelli, in seguito voce e volto per lungo tempo di Tribuna Politica alla Rai) era ancora l’oscuro leader di un complessino da ballo, gli Asternovas. Del tutto sconosciuto al grande pubblico, stimato dai colleghi e reputato un talento bizzarro da qualche amico (Gino Latilla, reduce nel 1954 dalla vittoria a Sanremo con la stucchevole Tutte le mamme, aveva accettato di incidere la sua Tchumbala-Bey, che mimava a ritmo di boogie il galoppo frenetico nella steppa di un cosacco invasato dalla sete di vendetta). E nel 1960 era già morto, dopo avere inciso un centinaio di canzoni e venduto cinque milioni di dischi, una cifra spropositata per l’epoca (soltanto Che bambola, l’exploit del 1956 che lo rese celebre, arrivò a vendere 980mila copie, quando Nilla Pizzi con Grazie dei fior nel 1953 aveva scalato le classifiche vendendo 36mila dischi).
In quei quattro anni dorati che arrivarono troppo tardi, Fred Buscaglione ottenne quasi tutto. Diventò il re dei juke-box, e alle macchine musicali che gli avevano permesso di raggiungere il suo pubblico saltando Sanremo dedicò una canzone, intitolata guarda caso Juke-box. Conquistò le platee televisive con la sua mimica e le sue invenzioni sceniche: in Teresa non sparare puntava il dito contro lo schermo, in Whisky facile era accompagnato da un coretto di bambini che lo rimproveravano. Girò dieci film, diretto da registi come Mario Mattoli, Camillo Mastrocinque e Dino Risi, a fianco di attori come Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Paolo Panelli e Totò. Fu ingaggiato nei night più esclusivi, lui che per anni si era dovuto accontentare delle balere, con un cachet superiore a quello dello stesso Modugno (al rialzo delle sue quotazioni contribuì a quanto pare anche Gianni Agnelli che una sera, al Covo di Nord Est di Santa Margherita Ligure dove si esibiva Renato Carosone, si limitò a mormorare: «Vorrei Buscaglione»).
E divenne un beniamino dei rotocalchi, dai quali si lasciò cortesemente cannibalizzare, combattuto com’era tra la voglia di smentire gli eccessi che inventavano sul suo conto e che urtavano la sua indole di piccolo-borghese tutto sommato fedele e tranquillo, e il timore di deludere il pubblico se avesse smesso i panni eccentrici e le pose spavalde dei suoi personaggi.
Smentì, o meglio ridimensionò, la storia romanzata del suo matrimonio, secondo cui avrebbe sotratto a un padre tiranno la quattordicenne acrobata marocchina Fatima Ben Embarek conosciuta a Casablanca (qualche giornale scrisse che la ragazza era tunisina o algerina, o che si trattava addirittura di una principessa araba) rapendola con una slitta trainata da quattro cavalli e fuggendo inseguito dall’Interpol. Più prosaicamente, Fred aveva conosciuto la futura consorte e collega Fatima Robin’s a Lugano nel 1949, quando la ragazza aveva già diciannove anni, e l’aveva sposata in Svizzera in quello stesso anno, benché il padre di lei non fosse troppo entusiasta della cosa.
Smentì anche, con pacata galanteria che nascondeva un insospettato perbenismo, un flirt con Maria Grazia Buccella («È giovane e carina, ma è anche una ragazza di buona famiglia che è giusto tenga alla sua onorabilità») e minimizzò i contrasti con la moglie, che nel 1959 avevano portato a una separazione fra i due. Ringraziò invece con elegante ironia un giornale che, pubblicando una foto di lui e Fatima accanto a una carrozzina (la didascalia diceva: “I due popolari cantanti con il loro erede”), aveva acuito il suo cruccio di non avere figli: «I giornalisti sono sempre molto generosi con me. Almeno nelle loro foto e nei loro articoli i miei desideri si avverano».
A parte queste esagerazioni, la stampa in genere lo trattò bene perché lo trovava simpatico. Ma gli cucì addosso lo stereotipo dell’eccentrico, del guastatore in servizio permanente effettivo. Ecco un esempio fra i tanti possibili, tratto da un settimanale femminile del 1959: «Prendete un ciuffo di note indiavolate, un paio di baffi alla Tipo-Tapo, quattro pagine di Mickey Spillane, due dita di whisky e venti grammi di polvere pirica; versate il tutto in un sombrero e poi mescolate con il codino di Belzebù. Il giuoco è fatto: ecco dinanzi a voi Fred Buscaglione, l’uomo meraviglia». Fu l’asso nella manica ma anche la maledizione che perseguitò un cantante che aveva avuto il coraggio di inventarsi un personaggio in un panorama canoro di desolante piattezza, dove il gusto per la fantasia e per la canzone intesa come “piccola rappresentazione teatrale” erano banditi e andavano per la maggiore i gorgheggiatori e le note filate, i languori da soprano, le enfasi e gli acuti da tenore e la melassa sentimentale.
Oggi, ammaestrati dall’ascolto di cantanti come Tom Waits che serbano in gola abbastanza bitume da asfaltarci un’autostrada e che quando esordirono avevano una voce da usignolo, possiamo sorridere della favoletta di un Buscaglione che, come i suoi gangster scalcinati, tutte le mattine beveva un bicchiere di nitroglicerina, pasteggiava ordinando al cameriere «un chilo di vino» e fumava ottanta “schiantapetti” (le Gauloises e le Gitanes si limitava a esibirle in scena, mentre fuori dal night fumava le assai più leggere Serraglio, oppure la pipa).
La voce si modifica, come il repertorio e l’abbigliamento di scena. Fred, che a vent’anni aveva una voce flautata e nel 1947, ancora smilzo e senza baffi, cantava come Dean Martin, effettuò la metamorfosi per battere strade diverse dagli altri complessi, che nei locali notturni avevano più successo di lui. Giocò d’azzardo, perché queste nuove canzoni che costringevano la gente a smettere di ballare all’inizio non entusiasmarono i gestori dei night. Nell’impresa lo aiutò l’amico e paroliere di fiducia Leo Chiosso, piemontese come lui, ex giocatore di rugby, ex attore nelle filodrammatiche universitarie e avvocato controvoglia.
Chiosso pescò con mano felice dalle storie eroicomiche del Damon Runyon di Bulli e pupe, dall’eccitazione dell’Età del Jazz e dalle gangster story degli anni ’30 e ’40, come dalle nostre parti faceva con successo anche l’umorista Carletto Manzoni con i suoi gialli parodistici (Ti spacco il muso, bimba!, Ti svito le tonsille, piccola!) che anni fa ebbero un loro timido revival con l’editore Theoria antesignano di Einaudi Stile Libero. Prese gli investigatori violenti ed energumeni del rozzo e fascistoide Mickey Spillane e li corresse con l’ironia di Lemmy Caution, il paladino della legge con la faccia da teppa che l’attore francese Eddie Constantine stava rendendo popolarissimo. Le bionde fuoriserie e supermolleggiate di queste canzoni “noir”, donne carnali all’eccesso per sana e fisiologica reazione alle madonnine angelicate e alle colombe sanremesi, rimandavano a due miti di quegli anni di disgelo che precedettero il boom: Marilyn Monroe («La bionda supersonica che l’atomo spezzò») e l’automobile, grande sogno ancora proibito per la maggioranza degli italiani.
Fu così che Ferdinando Buscaglione, jazzista apprezzto (come violinista era risultato secondo soltanto al grande Stéphane Grappelli compagno d’avventure di Django Reinhardt, nei referendum indetti fra il 1947 e il 1951 da una rivista francese, ma suonava anche il contrabbasso, il pianoforte e la tromba e aveva frequentato per tre anni il conservatorio) e musicista non più di primo pelo, si trovò a recitare la parte del duro che le racconta grosse ma è facile alle cotte e alle “imbarcate”, dello scettico e navigato playboy messo sistematicamente in crisi da bambole esplosive ma tut’altro che svampite, che lo incollano “a un lampion” oppure lo riducono “sul pavè”, al verde. Il resto, i doppiopetti gessati e la voce arrochita, i baffetti e le bretelle, il panama e il gilet fantasia, il bicchierino di whisky che spunta dal taschino (negli ultimi anni conteneva tè), furono trucchi funzionali. Come i “gimmick” che in sala d’incisione arricchirono le sue canzoni di colpi di clacson e fischi, orologi a cucù e petardi, voci di strilloni, sventagliate di mitra e sirene della polizia.
Gli italiani andarono in delirio per i suoi personaggi strambi che facevano piazza pulita di molto ciarpame sanremese e partenopeo, mandando in soffitta papaveri e papere, baveri color ciclamino, campanari della Valsugana e postine della Valgardena. Cominciò così a sfilare un’esilarante commedia umana fatta di seduttori di quartiere (come Porfirio Villarosa, “che faceva il manovale alla Viscosa”), di gangster contafrottole (come Sugar Bing, Il dritto di Chicago, che svaligia “sette banche nello spazio di un mattin” ma che quando va a Hollywood, “di risate sempre ghiotto, per veder Gianni e Pinotto” rifiuta un bacio ad Ava Gardner), di coppie infernali (come in Eri piccola così, dove lei “fumava mille sigarette” e lui “faceva il grano col tressette”).
Nelle sue nottate turbolente, piene di botte e guasconate (“Li guardo e li stendo, son sei/ poi li riconto perché non si sa mai”, Che notte) cominciarono a insinuarsi canzoni d’amore patinate come Love in Portofino o struggenti come Mi sei rimasta negli occhi e Non partir, ma anche robusti squarci di cronaca (l’elenco dei giornali, tra i quali l’Unità, che raccontano la disavventura del marito adultero in Teresa non sparare) e di bonaria satira a un’italietta che, con la margarina Gradina a 60 lire l’etto, sognava la bellezza con l’esotico Balsamo di Tigre o con la nostrana Acqua Alabastrina (Il siero di Strokomologoff che “favorisce la freschezza della pelle/ depila anche le ascelle/ sviluppa il décolleté”).
I quattro anni favolosi di Fred Buscaglione terminarono con un terribile schianto all’alba del 3 febbraio 1960, quando la sua Thunderbird rosa confetto si accartocciò a Roma contro un camion carico di pietrisco. Rimase la leggenda «di uno di quei prodotti estrosi della fantasia», come ha scritto il poeta Roberto Roversi, «che la gente brucia come legna nelle lunghe sere dei paesi».