L’incubo della guerra, il sogno della sua fine e un’immensa capacità di perdonare. Un capolavoro di Olmi
Dentro una trincea della Prima Guerra Mondiale. La cinepresa di Ermanno Olmi si muove lenta scoprendo scarponi malandati e coperte lacere, stufe e bricchi per il caffè, fucili e uomini imbacuccati dagli sguardi febbricitanti. E la foto di una donna vestita di bianco, elegante fantasma di un mondo lontano, così remoto che potrebbe nel frattempo essere scomparso, per sempre. La trincea è un mondo in penombra, senza colori, dove si resta chiusi, ammassati come bestie in una stalla, tentando di ripararsi dalle pallottole nemiche e dal freddo. Invano. Il gelo, le pallottole colpiscono, uccidono senza pietà. Vivere o morire non è questione di coraggio o abilità, ma solo di fortuna, destino.
Tutt’intorno, la neve spande il suo bianco abbacinante, e in cielo la luna è pallida e muta. Viene per forza in mente il Leopardi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, perché questa immensa luna che tutto vede e tutto lascia vedere – condannando a morte certa gli sventurati soldati obbligati a vagare nella neve per cercare di ubbidire a ordini sempre più assurdi e feroci – è una divinità indifferente, insensibile al destino umano. Proprio come quel Dio tanto spesso nominato da questi uomini sprofondati nella disperazione, che a un certo punto viene definito “infame”. Potrebbe sembrare una bestemmia, in realtà è un’invocazione. Purtroppo vana: “Non ha ascoltato suo figlio sulla croce, vuoi che ascolti noi poveri cani?”, esclama un soldato, dando voce ancora una volta allo scandalo della fede costretta a confrontarsi con la sofferenza degli innocenti.
Proprio sulla luna il film si chiude. E sul titolo: Torneranno i prati. Una speranza, che è anche una certezza. La guerra finirà, la terra assorbirà il sangue e nuova erba crescerà sulle tombe. Tutto sarà come prima. Ma niente sarà più come prima. E con questa tragica consapevolezza i sopravvissuti dovranno imparare a convivere. Olmi racconta la Prima Guerra Mondiale. E non solo. Parla di ogni guerra, di qualunque epoca, comprese le attuali battaglie combattute a distanza manovrando droni come fosse un videogioco. Lo fa condensando tutto in una notte e arrivando all’essenziale, distillando parole e immagini con l’aiuto di un cast perfetto per intensità e convinzione. Tutto in una notte, la guerra e la pace. Anche della pace si parla nel film: perché l’orrore non si può dimenticare, ma si può perdonare. E ciò che distingue l’uomo dalle bestie è proprio questo. «Ma se un uomo non sa perdonare, che uomo è?». Lo dice il giovane tenente dallo sguardo attonito, più amante dei libri di filosofia che dell’azione, gettato per caso in una trincea bersagliata dai colpi di mortaio dei nemici e costretto a prendere il comando, a decidere della vita e della morte dei suoi uomini senza alcuna esperienza o attitudine al comando. Proprio a lui Olmi affida il messaggio finale di questo film solenne e smagliante, nitido ed emozionante. Nella sua filmografia spiccano molti ottimi titoli, questo però ha qualcosa in più: è un film necessario.
Torneranno i prati, di Ermanno Olmi, con Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria