The Sound of Silence

In Musica

Beckett e la musica: storia di una passione “necessaria” per l’autore di Finale di partita e di Aspettando Godot. A Milano 30 giorni di concerti e teatro che attraverso il Festival di Milano Musica dedicato a György Kurtag ci mette in ascolto con il mondo inquieto del grande irlandese

É tempo di Beckett, anche se non passa giorno che non sia suo, sempre. Parliamo del mese “in ascolto” di Samuel Beckett (1906-1989) che sta per occupare teatri, sale e spazi diversi fino al 26 novembre con il Festival che Milano Musica dedica a György Kurtág (1926), inaugurato domenica in una Scala assediata da code mai viste per un concerto di musica contemporanea. Un festival teso verso lo scocco di Fin de partie, scénes et monologues, opera prima e unica che il novantaduenne Kurtág ha finalmente composto su Finale di partita dopo aver corteggiato la pièce di Beckett per una vita (alla Scala per sei recite dal 15 al 25 novembre). Prima, dopo e attorno girano diciotto programmi sinfonici e da camera, macro e microconcerti, lezioni e conferenze, musica pura e teatro tascabile “à l’ecoute” del padre di Godot.
La musica di Kurtág, il più grande compositore che l’Europa abbia attivo, è pronta per essere scoperta da chi non la conosce, confermata da chi sa, semplicemente goduta. Ma c’è musica già in Beckett? La risposta è sì.

Bach? Non ancora
Samuel Beckett era un pianista di rispetto. Quando non era al Falstaff, suo locale preferito in rue de Montparnasse, da Chez Françoise o alla Coupole, le serate familiari, riservate, tutt’altro che “flamboyant”, consumate nella Parigi anni Sessanta-Settanta, fra gli amici con cui amava stare, pochi, cominciavano quasi sempre con zio Sam che suonava al pianoforte. Chi? Che cosa? Le passioni di una vita: Mozart, Beethoven, Schubert sopra tutto e tutti. Musica fino alle ore piccole dei whiskey irlandesi, Jameson e Bushmills, che non riuscivano mai a confondere la sua lucidità, la sua verve, i suoi ricordi. L’irlandese della Rive Gauche, alto e asciutto, occhi freddi e cuore tenero, maestro di scacchi e di biliardo, buon giocatore di cricket e passione per il rugby, naturalmente, nuotatore forte e camminatore svelto, reggeva l’alcol in maniera gagliarda.
Ma se non c’era strumento a portata di mano, o anche c’era ma non la disposizione d’animo, Sam amava altrettanto se non più ascoltare. Gli incontri erano anche fatti semplicemente del metter su un disco, uno dei vecchi vinili, che però Sam voleva ascoltare come si deve, tanto che all’amico con cui passò più spesso le serate per almeno quindici anni, il pittore Avigdor Arikha, un giorno fece trovare davanti alla porta un buon impianto audio, perché il suo era proprio agli ultimi.

«La musica era il nostro legame più forte – scrive Anne Atik, moglie di Avigdor, nel suo Com’era, prezioso libro di ricordi beckettiani tradotto e pubblicato da Archinto -, la poesia faceva parte di quel legame, l’altra metà del cuore, per così dire. Le nostre serate iniziavano con la musica, prima di cena, e finivano con la musica, intervallata dalla poesia. Sam ci diceva che cosa voleva ascoltare, oppure mettevamo nuove registrazioni, qualche volta musica per pianoforte, su cui aveva lavorato a casa, da solo o con Suzanne».
Ascoltare chi e che cosa? «Nei primi tempi della nostra frequentazione – ricorda ancora Anne Atik – ascoltavamo Mozart e Beethoven, specialmente musica da camera (Sam scrisse un dramma televisivo intitolato Trio degli spiriti, in cui il Largo ha la stessa importanza dei due attori sul palco); altre volte Chopin o Webern. Raramente Bach – “non ci sono ancora arrivato”. Il più delle volte ascoltavamo gli ultimi quartetti di Haydn, e poi, immancabilmente, Schubert». Insieme ad Avigdor e sua moglie, anche noi restiamo sorpresi da questa apparente lontananza o sudditanza rispetto a Johann Sebastian.
«Forse perché la sua architettura e determinazione scaturivano da una certezza sul mondo? – si chiedevano gli Arikha – Sul tempo? Sul fatto che ci fosse una Eternità? Una certezza che Sam non poté mai condividere, ma che era il firmamento che illuminava Bach e certamente la sua anima?».
Le ipotesi non sono vaghe o senza senso. Bach sembra straniero alle ansie, agli scarti, ai dubbi, ai cinismi, agli interrogativi esistenziali di cui è fatto il mondo di Beckett.

Basta che non ci sia dentro “troppo”
Ma sulle predilezioni molto influivano quantità, lunghezza, peso. La musica di quali altri grandi era nelle corde di Beckett? Non Mahler – “c’è troppo dentro” – né Wagner, per la stessa ragione. Maestro di sintesi, Beckett non a caso preferiva Webern, ch’era anche l’unico o raro moderno nella sua playlist.
Nel corso degli anni pare che il suo orizzonte si sia spostato risolutamente dalla musica sinfonica a quella cameristica, e più ancora verso la voce, i Lieder, in maniera ancor più esclusiva rispetto a prima. Gli amici raccontano di una memoria prodigiosa che gli permetteva non solo di citare le poesie che amava, gli autori che gli avevano lasciato un segno indelebile, celebrati come modelli (quando si disferà di molti libri della biblioteca, regalandoli, si terrà sempre stretta la Divina Commedia), ma anche di cantare con proprietà una non piccola parte del repertorio liederistico di Brahms, Schumann, Schubert. La sintesi e il teatro sommerso del Lied gli erano vicini.

Beethoven, Brahms, Schumann, Schubert
Amava Schumann e adorava i Liederkreis cantati da Janet Baker. Non era entusiasta di Brahms, fatta eccezione per la musica da camera, i trii, i sestetti, ma considerava Immer leiser wird mein Schlummer uno dei Lieder più belli.
Amava Beethoven, naturalmente, ma lo trovava troppo eroico, come Joyce, insieme al quale lo vedeva condividere una vita di sfide terribili. Gli piaceva ricordare quel che Beethoven disse quando, otto giorni prima di morire, gli misero in mano i Lieder di Schubert: «Davvero in questo Schubert brilla una scintilla divina…Un giorno quest’uomo porterà un grande scompiglio nel mondo». Non ebbe tempo di saperlo, in vita, Franz, isolato, incompreso dal mondo musicale del suo tempo. «Tranne che per gli amici», replicava Beckett. E all’obiezione che a Schubert era mancato il conforto di eco, riscontri, Samuel insisteva: «Se uno si rende conto dell’eco, è finito». Un altro perché della predilezione per Schubert.

Amava molto Der Leiermann, Lied sublime della sublime Winterreise, nell’interpretazione di Hans Hotter, ma gli preferiva Dietrich Fischer-Dieskau, perché «alla fine c’è un vero grido. Lui grida!». E non poteva nascondere la commozione.
All’ascolto di cicli come Winterreise e Schwanengesang si preparava sempre con emozione e, arrivato al Doppelgänger su versi di Heine (Schwanengesang), non tratteneva le lacrime. Il più bel Lied di Schubert? Gretchen am Spinnrade.
Avvertiva i colleghi scrittori quanto l’erudizione possa soffocare l‘autenticità. E a ogni incontro pure occasionale con la musica reagiva con l’intransigenza quasi morale della sua estetica. Una sera, al Café Français, dopo brani di Händel, Bach, Čaikovskij, si alzò una musica che Beckett trovò subito “orribile”. Chi è? César Franck. Perché orribile? gli chiedono. «È troppo accademica».

Attori come strumenti d’orchestra
Che cos’era la musica per Beckett? Piacere, rifugio, consolazione? Ben altro: era parte della sua lingua come scrittore e drammaturgo. «Sam dirigeva i suoi testi quasi fossero orchestrazioni – scrive ancora Anne Atik – e i suoi attori l’orchestra. Oltre alla sua lettura incomparabile del monologo di Clov in Finale di Partita, e quelle di altri testi, il cui impatto è confermato dagli attori che l’hanno sentito metter loro in bocca le battute, una delle sue letture più travolgenti resta  quella di Di’ Joe, che preparava la superba interpretazione di Billie Whitelaw». Beckett lesse all’attrice il testo offrendole una grande “paletta” di colori e accenti, di volumi, tempi e intensità. «Bassa, netta, lontana, poco colorita, flusso un po’ più lento del normale e rigorosamente mantenuto… Pausa tra le frasi in corsivo un po’ più appoggiate – annota ancora Atik e conclude – : Billie era uno strumento per Sam». Come la cantante nelle mani del compositore, che le disegna sull’ugola la frase, la linea, la melodia. Alla fine delle prove, quella di Billie era «una voce che non sembrava più di donna, piuttosto il frangersi delle onde sulla riva, qualcosa che era parte della natura, che si alzava, si abbassava, mormorava» (Atik).
Gli attori finivano per essere penetrati dalla musica dei suoi testi. Logico che siano rimasti attratti dalla parola di Beckett tanti compositori fra loro diversissimi: Morton Feldman, Luciano Berio, Henry Dutilleux, Heinz Holliger, Philip Glass. E, oggi, uno dei più astratti e non teatrali (finora), György Kurtág.

Il Suono del silenzio
Gli amici ricordano quanto improvvisamente e a lungo Beckett rimanesse zitto, rispettando il suo mutismo con soggezione e quasi un senso di colpa. Stravinskij gli confessò di essere rimasto colpito, come compositore, dal modo in cui aveva scritto i silenzi in Aspettando Godot.
Tutta la Parola di Beckett sembra avere come punto d’arrivo The Sound of Silence, come scrive Mary Bryden in un suo saggio pubblicato dalla Oxford University Press nel 1998. Ma i passi verso il Suono del silenzio sono fradici di musica.

 

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