Hugh Jackman danza e canta in “The Greatest Showman” di Michael Gracey, interpretando con energia seduttiva il ruolo del più grande impresario americano dell’800, che inventò il circo a tre piste e in qualche modo anche il musical. Un film coloratissimo e dal gran ritmo, candidato a due Golden Globe, forte di un cast che comprende Zack Efron, Michelle Williams e la giovane Zendaya
“And you know you can’t go back again,
to the world that you were living in,
cause you’re dreaming with your eyes wide open”
Così cantano i freaks, trasformati in scintillanti eppure mostruosi animali da palcoscenico da P. T Barnum, in Come alive, il quadro di danza più trascinante di The Greatest Showman, il biopic dell’esordiente regista australiano Michael Gracey che grazie al formidabile connazionale Hugh Jackman ricostruisce con molta immaginazione la vita del più celebre impresario americano dell’Ottocento: è stato lui a inventare il circo a tre piste, dove i diversi numeri si intersecano e si combinano creando geometrie inedite, e in qualche modo ha posto anche le basi del musical moderno, diventando così il precursore di un intero genere, non certo secondario, della storia del cinema Hollywood style. E ha messo in scena prima di tutti la mostruosità della natura umana, facendo di una donna barbuta (Keala Settle) e di una coppia di gemelli siamesi ginnasti, di un nano cavallerizzo vestito da Napoleone (Sam Humphrey) e di un gigante svedese, le sue star.
Curiosamente i due più significativi musical che hanno visto la luce negli ultimissimi mesi, La La Land e The Greatest Showman, hanno un forte legame, che non è solo la rinascita di un genere la cui presenza sugli schermi ha un’andamento sempre più carsico, ma di recente con ottimi esiti: per portare a termine il progetto-Barnum, annunciato ben otto anni fa e forte già da sei di regista e protagonista certi, sono dovuti scendere in campo, oltre a uno sceneggiatore del calibro di Bill Condon – che ha portato sullo schermo gioielli di Broadway come Chicago, Dreamgirls e La bella e la bestia – anche Benj Pasek e Justin Paul, gli autori delle liriche di City of Stars, il brano simbolo del film dai tanti oscar 2017 con Emma Stone e Ryan Gosling. Nel 2016 sono entrati poi nel cast Zac Efron, Michelle Williams e Zendaya, bellissima acrobata che viene da un altro “circo”, assai più moderno, quello Disney. Poche settimane fa, due candidature ai Golden Globes hanno annunciato per il progetto successi forse anche più ampi.
E pensare che quasi 40 anni ci dividono dal debutto, nell’aprile 1980, del musical teatrale su Barnum cui il film si ispira rilanciando una figura contraddittoria che nella sua smania di successo e ascesa, tra visionarietà e invidia sociale, estrema energia e approssimazione culturale ha prima inventato e poi conquistato un pubblico che dal circo sarebbe naturalmente passato al cinema, arte popolare fin dai suoi inizi in termine di audience, linguaggio, dimensione planetaria.
Molti hanno paragonato, per la capacità di incantare, sedurre e forse anche in qualche modo raggirare il suo pubblico, questo numero uno dello show business all’attuale presidente Usa: due “eroi” delle fake news, due “spacciatori” di sogni così simili da rendere abbastanza trascurabile la differenza tra vendere, garantendosi comunque un enorme successo, spettacolo e realtà. E qualcuno ha anche detto che se è vero che il reale Barnum effettivamente regalò un palcoscenico agli ultimi, agli “altri” per definizione, diede però in pasto al pubblico, e non esattamente allo scopo di esaltare il loro orgoglio di diversi ma vivi, un nano di sette anni che fumava il sigaro e un demente di razza afro-americana contrassegnato dalla definizione di “anello mancante”, chiaramente sottintendendo lo scarto tra il regno animale e quello dell’homo erectus.
The Greatest Showman, soprattutto grazie alla performance di Jackman – già premiato per Les Miserables, vincitore di un Tony Award teatrale sempre nel campo del musical e per questo ruolo paragonato perfino al Gene Kelly dei giorni migliori – è dichiaratamente un film di genere e nel canto, nel ballo, nei quadri d’insieme certamente gioca le sue vere atout. Del resto referenze simili vanta anche il suo regista, che viene dal videoclip e ha al suo attivo un altro film biografico su un protagonista dello show-biz sonoro come Elton John. Tutto questo rende forse non infondate, ma in qualche modo fuori tema, le ironie dei suoi critici, in qualche modo anticipate nel film dallo spietato giornalista Paul Sparks (già in House of Cards e Boardwalk Empire), che stronca ogni show di Barnum tacciandolo di ignoranza e istigazione degli istinti peggiori del pubblico: i più spietati recensori hanno parlato di Elephant Man rivisto da Lady Gaga, o di Chorus Line ispirato alla vita miserabile dei Freaks di Tod Browning.
Forse il rigore di Bob Fosse e la visionarietà di Baz Luhrmann sono ineguagliabili, ma l’ennesima materializzazione del sogno americano, così si conviene a un musical “aggiornato”, porta con sé come in La La Land la dimostrazione che è un sogno tutto alti e bassi: la favola dal povero che sposa la figlia del ricco e passa tutta la vita a lottare per superare i pregiudizi della sua famiglia, tentando di garantire alla consorte “la vita che volevo darti”, deve fare i conti con l’up and down del mondo dello spettacolo, la volubilità del pubblico. E lo show “must go on” anche se va in crisi il suo matrimonio perchè ha scelto di salire la scala sociale del gusto promuovendo nei “veri” teatri la tournée della più grande cantante lirica europea, l’usignolo svedese (Rebecca Ferguson), di cui dicono si sia innamorato: per lei sembra abbandonare, rinnegare moglie, figlie e perfino i suoi amati freaks, che forse in fondo erano solo lo strumento per arrivare al top.
Nella sua esistenza bigger than life qualcuno ha visto echi addirittura wellesiani, se a Orson fosse piaciuto il musical. Ma la vitalità di questo show che “must go on” sembra più vicina al sogno hollywoodiano che americano (non sono esattamente la stessa cosa), e ricorda che il cinema, per 110 minuti, deve distogliere dalle fatiche e tristezze della vita, come nella meravigliosa Rosa purpurea di Woody Allen. Anche se forse è vero “l’aspirazione alla crescita di un uomo è limitata solo dai limiti della sua immaginazione” (è P. T. Barnum che lo dice nel film), il luogo in cui tutto certamente questo s’invera è il grande schermo di una sala di cinema. In America come altrove.