The Crown: perché siamo fan di Elisabetta

In serieTV, Weekend

Su di lei ciascuno dice la propria: la gente, la stampa, tutti noi. Ma ciò che è bello – e che è assai riuscito nella serie The Crown – è che lei sfugge a tutto, è sopra tutto, regna spietatamente su tutto

L’elemento più interessante di The Crown, prima ancora della sua struttura ideologica, si ascrive al piano culturale: sulla famiglia Windsor, su Elisabetta, negli ultimi decenni, tutti abbiamo stabilito di poter dire la nostra.

Al di là di ogni sberleffo storicistico, del credo politico, della propria visione del mondo e della democrazia, si è sempre imposta l’assoluta libertà di espressione sugli affari della corona britannica degli ultimi sessantacinque anni – ebbene sì, proprio in questi  giorni la regina Elisabetta si è guadagnata il titolo di reggente più longeva del Regno Unito, superando persino la grande Vittoria.

Ciascuno si esprime sulla famiglia di Elizabeth Windsor: columnist, popolino, aristocratici, uomini di cultura. Una fede trasversale che riflette il profondo, morboso, a volte immotivato attaccamento nutrito nei confronti delle famiglie reali di stampo occidentale. E, in particolare, di quella inglese: i monegaschi sono esibizionisti, gli svedesi troppo compiti, gli spagnoli poco interessanti. I reali d’oltremanica, invece, hanno tutti questi ingredienti combinati alla perfezione.

Per cui giù di riflessioni, commenti, osservazioni, siano sulla tragica morte di Lady D. che sul vestito bianco di Pippa Middleton. Ogni brandello deve passare al setaccio della contemporaneità, osservatrice e giudice di una reggenza che, tra luci e ombre, ha divorato la scena degli ultimi tempi.

Il merito, lo scranno, la lode vanno a colei che tale reggenza la incarna fisicamente e – soprattutto – spiritualmente.

Lei, la regina. Un automa impenitente, un incubo in tailleur confetto, la più grande esperta di cavalli e di corgi dal Kent in su. E molto altro. Su questa enorme, interessantissima signora c’è chi è stato così intelligente da decidere di capitalizzarci sopra: sì, parliamo di quella vecchia volpe di Peter Morgan, un drammaturgo come non se ne fanno più, uno che prende i politici e li rende roles of a lifetime di palcoscenici e riduzioni cinematografiche (vedi alla voce: Frost/Nixon).

Tutto era iniziato con la sceneggiatura di The Queen, diretto da Stephen Frears, colonna in cronaca del post-tunnel di Place de l’Alma con una Helen Mirren che ha vinto tutti i premi del mondo, dall’Oscar a quello di miglior attrice di condominio. Nel film Elizabeth si scontra, forse per la prima volta, con il pensiero unico di un popolo che piange la scomparsa dell’altra regina del Regno, quella cognata dai modi tanto sovversivi, anti-corrispondente alla visione canonica di intendere la corona. La regina “titolare”, però, nel film è già matura; con The Crown, la serie Netflix diventata ormai di vero culto, Peter Morgan – che nel 2013, ha scritto una nuova pièce sul rapporto tra la Queen e i suoi primi ministri, The Audience, viva le ossessioni! – ristabilisce piuttosto il contatto originario (e post-adolescenziale) tra la figlia di Giorgio VI e il potere della corona.

 

In un tour de force in sottrazione, praticamente spoglio di qualsiasi impeto epico, assistiamo alla scarnificazione morale della giovane Elizabeth, che si spoglia della sua componente umana per indossare quella, sempiterna, di un dovere che è divino prima ancora che terreno.

Poco importa che, in fondo, alla “corona” lei ci arrivi per caso: suo padre subentra al fratello Edoardo, costretto ad abdicare poiché invischiato nella love story con la divorziata americana Wallis Simpson, e colpevole di alto tradimento nei riguardi dell’etichetta di corte.

La coincidenza non aderisce al peso di tale responsabilità: nel corso della serie, Elizabeth perde gradualmente il controllo dei suoi limiti corporei e morali, assurgendo a una nuova spiritualità imposta dal prestigio dell’oggetto “corona”. Lo intuiamo sul finire dell’episodio n. 2, poco dopo la morte del padre-re: i capelli ordinati, il portamento discreto, Elizabeth cammina per i corridoi di Buckingham quando viene interrotta dall’arrivo della nonna, Queen Mary of Teck (Eileen Eckhart). Un’apparizione funerea, con l’anziana coperta da un ingombrante velo di lutto e la giovane donna solo in apparenza disarmata davanti al cambiamento radicale della sua esistenza. La macchina da presa va in zoom sugli occhi azzurri e determinati della protagonista, l’eccezionale Claire Foy, che vede la vecchia nonna inginocchiarsi al cospetto della nuova sovrana. Pochi, vibranti secondi che restituiscono il senso di un fardello gravoso ma imprescindibile. Non c’è nemmeno tempo per il rigor mortis.

Ed è implicito sostenere come uno degli aspetti più interessanti di questo The Crown sia proprio la presa di posizione nei confronti della protagonista: all’avvicinarsi aureo di una dimensione regale “celeste”, i pochi lacerti di umanità si ammucchiano tra loro in maniera disomogenea, senza assumere contorni precisi.

the crown

È per questo che Elizabeth in un episodio biasima la madre (Victoria Hamilton) per la scadente istruzione cui è stata destinata e che le impedisce di tener banco a politologi e intellettuali, e in un altro ancora gioca con criterio a rimproverare il “suo” Winston Churchill. Un personaggio, quest’ultimo, cui la serie regala una dimensione interessante: grazie al talento dello straordinario John Lithgow il politico abita uno spazio a metà tra la legittimazione macchiettistica e la frustrazione di chi respira l’onta del declino; nei rispettosi battibecchi tra lui e la regina, oltre alla forza nel combinar parole che è tipica di Morgan, emerge lo spessore di due personaggi orgogliosamente ambigui.

Grazie a The Crown ci sentiamo finalmente legittimati non più tanto a spiare dall’occhio della serratura dei Windsor, ma a essere testimoni di drammi che possono essere robusti, o lievi, senza alcuna contiguità: ogni cosa viene scandita da un ritmo cronologico. La gioia e il dolore l’una accanto all’altro, perché in fondo è così che funziona nella vita vera. Una scelta spietata, perché ogni cosa ci piove addosso senza accondiscendere mai a geometrie organiche e regolari. È un gioco affascinantissimo: credi di sapere ogni cosa su Elizabeth, ma in fondo non potrai mai sapere davvero tutto perché è una divinità. E come le divinità agisce secondo il proprio tornaconto o una volontà che noi mortali non potremo mai comprendere. Si inserisce bene, seguendo questo ragionamento, la chiosa lancinante del Re consorte Filippo (Matt Smith), consapevole del destino di gregario a vita: «Non vestire il tradimento da favore».

Elizabeth è anche questo: una stratega dei sentimenti. Quelli del marito, spedito alle Olimpiadi d’Australia, che mal tollera i riflettori in costante accensione sulla moglie e la supremazia dell’anima divina su quella terrestre. Quelli della principessa Margaret (Vanessa Kirby), che attende scalpitante il placet per sposare l’uomo – divorziato – di cui è tanto innamorata. Un benestare che scalfisce solo in apparenza l’animo di Elizabeth: la sua scelta, seppur manovrata dai voleri del Parlamento, è in linea con la corona. E non transige, anche di fronte ai dolori della sorella.

The Crown è un ritratto spietato e fieramente poco organico di una giovane donna che ha smesso di esistere in quanto tale, preferendo ascendere al regno trionfale della gloria eterna. Sacrificando tutto quello che le sta intorno: davanti a lei c’è solo il bene del suo Paese, e quello dei suoi abitanti. Sì, perché tutto intorno c’è la Gran Bretagna: cuore pulsante che supera guerre e crisi pur di crescerle a fianco. Ed è così che è andata.

Sul finale di questa prima stagione – cui ne seguiranno altre, considerato il grande successo – una voce, insopportabile come una nenia, la sveste degli ultimi orpelli: «Non si muove, non respira… La nostra dea assoluta. La gloriosa Gloriana. Ora dimenticate Elizabeth Windsor, esiste solo Elisabetta la regina».

Elizabeth, quando vengono pronunciate queste parole, è ancora una giovane sovrana. Sa già, tuttavia, quale sarà il suo destino: un processo totale di disumanizzazione. Con felicità. E nel celebrare i 65 anni dall’arrivo di Elizabeth – la regina, non la donna – su questo pianeta, vien voglia di gridare, sempre e a prescindere da tutto, God save the Queen.

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