Stupiscici ancora, Terry (Gilliam)

In Weekend

Da non perdere: Gilliamesque Un’autobiografia pre-postuma, ovvero Terry Gilliam raccontato da se stesso e da par suo…

Irresistibile, spiazzante, megalomane già dal titolo Gilliamesque Un’autobiografia pre-postuma. Riconosciamo subito lo humour del visionario regista dei Monty Python, di Brazil ( 1985), Le avventure del Barone di Münchausen (1988), La leggenda del re pescatore (1991), L’esercito delle 12 scimmie (1995), Paura e delirio a Las Vegas (1998).

Terry Gilliam sceglie, per assonanza e anche per complicità, di identificarsi con Gilgamesh, l’iracondo eroe sumero del 2000 a.C., che affronta avventure di ogni genere alla ricerca del segreto dell’immortalità, mentre nel sottotitolo gioca sul fatto di scriversi da solo la storia della propria vita per farsela come vuole: fosse morto potrebbero confezionargli un’agiografia o raccontare un sacco di palle.

Una mano nel far crescere la curiosità gliel’ha data involontariamente Variety a settembre, prima dell’uscita del libro, annunciando la sua morte (e poi chiedendo scusa). Terry Gilliam ha preso la palla al balzo e ha commentato ironicamente sui social :«Mi scuso per essere morto. Soprattutto con quelli che hanno già acquistato i biglietti per i prossimi incontri, ma Variety ha annunciato la mia morte. Non credete alla loro smentita e alle loro scuse!».

Eccoci ora al libro: chiazzato di sangue e inchiostro, il testo inframmezzato da meravigliosi collage, disegni, fotografie, fumetti, con suoi commenti scritti in corsivo (e meravigliosamente tradotti da Assunta Martinese), che ogni tanto centrano con il tema, altre volte no, ed è proprio questo mix imprevedibile che ci fa riconoscere il suo genio, perché fa sempre un salto in più. Quando credi di capire che è tutto vero, ecco che cala il sipario del teatrino e Terry sghignazza: te l’ha fatta un’altra volta. Poi se ne inventa un’altra. La biografia segue un ordine cronologico, l’infanzia serena da campagnolo del Minnesota, il papà falegname, come Gesù e «…ho sempre desiderato delle cicatrici, ma non ne ho, punto e basta. In effetti, forse è per questo che mi sono dovuto mettere a fare film: per procurarmi quelle profonde ferite emotive e spirituali che la mia infanzia così straordinariamente serena mi aveva negato con tanta crudeltà».

La Bibbia, i Fratelli Grimm, le gite a Disneyland, i fumetti di Mad alimentano il suo immaginario; è bravo a scuola e al college, dove arriva con una borsa di studio della parrocchia presbiteriana, all’università però non riga più così dritto. Succhia l’aria ribelle e fantasiosa dei figli dei fiori. Laureatosi, decide di trasferirsi a New York dove riesce fortunosamente a entrare nella redazione di HELP!, il più trasgressivo e sofisticato dei fumetti underground. La specialità di Terry sono i fotoromanzi ‘perversi’ per cui fa posare artisti allora semisconosciuti come Bob Dylan, Woody Allen, Frank Zappa. L’idea, confessa, gli è venuta vedendo Lo sceicco bianco di Federico Fellini in cui Alberto Sordi parla attraverso le ‘nuvolette’ delle strip. Intanto si fa una vera scorpacciata dei grandi film stranieri, da Kurosawa a Bunuel, a Chaplin a Ejzenstejn.

L’atmosfera libertaria ed elettrizzante della New York anni ’60 si incupisce con l’avvento al potere di Nixon e dopo un po’ di viaggi andata e ritorno in Marocco, in Messico, in Grecia, in Italia, Terry si trasferisce a London, “a place for me!”. Sono gli anni della swinging-London, quella descritta così meravigliosamente da Blow-up di Michelangelo Antonioni, e lui vive a Soho e conosce tutti.

Qui riprende con i fumetti; comincia con gli spot pubblicitari, innovandoli col cut-out, in cui inserisce e manipola quadri di Brueghel, il suo preferito, di Rembrandt, di Botticelli, saccheggiando dagli archivi della BBC; poi è la volta delle serie TV per bambini, cattivissime e molto prima dei Simpson. Finalmente, l’incontro con i Monty Python, le serie del Flying Circus, i dischi, le tournée in cui per la prima volta loro – dei comici – vengono trattati come delle rockstar: non si montano troppo la testa, soprattutto perché le loro groupies sono foruncolose e cicciottelle, assolutamente inscopabili.

Gilliam orami ci ha provato con tutti i media, non gli manca che il cinema. Megalomane, rissoso, sicuro del suo genio, non scende a compromessi, rifiuta happy end, schifa il ribellismo mercificato, il politicamente corretto; si scontra con tutti, dalle major alla critica progressista. Si sente un genio incompreso e vilipeso come l’adorato Orson Welles.

Per fortuna che dalla sua parte c’è il generoso finanziatore George Harrison e tanti meravigliosi attori, da Robin Williams, a Jeff Bridges, Robert De Niro, Brad Pitt, Uma Thurman, Johnny Depp. Ma non basta, la sfortuna, il boicottaggio lo perseguitano. Lui, tra una crisi depressiva e l’altra, ci sghignazza su e ribalta la sconfitta.

«Ero sempre stato convinto di desiderare la celebrità – quel mostro interiore era rimasto lì in agguato tutto il tempo… È molto più facile non vendersi l’anima se non c’è nessuno disposto a comprarla, e ho sempre temuto che la mia determinazione potesse vacillare se gliene avessi dato l’occasione. Anzi, probabilmente quella paura è stata l’unica cosa che mi ha protetto da me stesso, insieme alla provvidenziale capacità di trovarmi un mecenate dalle risorse inesauribili…insomma non corro pericoli».

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