Suonala ancora Leonard

In Musica

È tornato tra noi, anche se in versione postuma, con un’ultima struggente raccolta di canzoni impareggiabili. “Thanks for the dance” è un album vero e non una raccolta di fondi di magazzino. Anzi dice il figlio, non ci saranno altri inediti. E allora grazie Leonard Cohen per questo ultimo giro di danza

«Ho sempre lavorato con costanza/ senza chiamarla mai arte/ Ho messo assieme la mia merda/ incontrando Cristo e leggendo Marx/ Ha fallito, il mio piccolo fuoco/ ma ha sparso la scintilla morente/ Va’ a dire al giovane messia/ che cosa succede al cuore».

Leonard Cohen, il meraviglioso Leonard Cohen che parcheggiava in doppia fila sulla via dell’amore, il poeta sensuale che aveva una gattina in cucina e una pantera in giardino, che nella prigione di quelli talentuosi era in buoni rapporti con le guardie pur di non rendere testimonianza, il mistico che non ha avuto problemi a scommettere sul diluvio contro l’arca, ci fa un regalo postumo venato di stoica autoironia. Lieve, anche se i temi affrontati non lo sono, e pronto a trovare «la bugia in ciò che è santo, la luce in ciò che non lo è». Come anni fa, affrescando tempi di apocalisse in sedicesimo, invitava (Anthem) a suonare le campane che ancora possono suonare e a scordare l’offerta perfetta, perché c’è una crepa in ogni muro ed è da lì che entra la luce.

E dopo il congedo cupo e maestoso di You want it darker, pubblicato nel 2016 due settimane prima di morire, Cohen ritorna a chiudere il cerchio con nove canzoni abbozzate e incise nelle session di quell’album finale. Poco meno di mezz’ora di musica, scritta completata rifinita e prodotta in questi tre anni con affettuoso rispetto, senza prendersi nessuna libertà, dal figlio Adam, scegliendo sonorità scarne che rimandano al primo Cohen, quello di Suzanne, e al Cohen mediano di Recent songs: allora impreziosite dall’oud di John Bilezikjian e oggi dal liuto dello spagnolo Javier Mas. Mentre altri ammiratori – la celestiale corista Jennifer Warnes di Famous blue raincoat e il grande produttore Daniel Lanois, Beck e Richard Reed Parry degli Arcade Fire, Damien Rice e Leslie Feist, Dustin O’Halloran e Bryce Dessner dei The National – rendono omaggio al maestro con piccoli cameo, come se posasssero una pietra sul suo sepolcro.

È giusto che sia così e il risultato, Thanks for the dance, è un album vero e non, come si poteva temere, una raccolta improvvisata di fondi di magazzino. Un album postumo – il primo e l’ultimo, non ci saranno altri inediti, dice il figlio – che chiude con coerenza un percorso tra i più alti dell’arte della canzone. Che emoziona nel tirare le fila della sua vita e della sua poetica, consapevole della fine imminente, con quella voce arrochita e mesmerica da grande vecchio, capace di fare risuonare corde profonde in chi ascolta almeno quanto faceva la “golden voice” che Cohen ironicamente si attribuiva in The tower of song.

La persistenza del desiderio che si fa memoria, che non si arrende anche se il corpo deve farlo, è la protagonista di molte canzoni del “canadese errante” Cohen (1934-2016) come lo è stata di molti dei romanzi estremi del coetaneo Philip Roth (1933-2018), e sarebbe interessante ricostruire le loro “vite parallele”. Affini in molte tematiche e dissimili negli svolgimenti, i due grandi dividono però la stessa aria di famiglia, la stessa disincantata presa d’atto dei “piccoli ebrei che hanno scritto la Bibbia” di una realtà caotica dove «i messaggi volano, ma il network è collassato», metafora insieme dello stato del corpo e di quello del mondo.

Il desiderio che si fa memoria è, qui, realizzare il sogno di Federico Garcia Lorca, l’ “andaluso di professione” come lo chiamava Borges, che lo folgorò nel 1950 spingendolo a scrivere versi e a cantarli, e portarsi finalmente al fiume la donna una sera, credendo che fosse ragazza e invece aveva marito. E, in The night of Santiago, sfiorare il suo seno addormentato e vederlo sbocciare come un fiore, attendere l’alba con lei, giurare di non rivelare le confessioni ricevute e congedarsi con un piccolo dono solo per vederla ridere, perché «non ero nato zingaro/ per rendere triste una donna».

Il desiderio che si fa intenerita memoria è il ricordo di Marianne Ihlen, la ragazza norvegese amata e cantata nei tempi giovani della bohème greca (So long, Marianne, ricordate?) e scomparsa prima di lui: «Ho amato il tuo viso, ho amato i tuoi capelli/ le tue t-shirt e i tuoi abiti da sera/ e quanto al mondo, al lavoro, alla guerra/ li ho gettati in un fosso per amarti di più» (Moving on).

La memoria d’amore, la memoria dell’orrore. «Fantocci tedeschi bruciavano gli ebrei/ fantocci ebrei non potevano scegliere… Presidenti fantoccio ordinano/ a eserciti fantoccio di mettere a fuoco la terra» (Puppets). E l’oggi impedito ma pacificato, la resa dei conti, il bilancio: «Non posso più raggiungere le colline/ il sistema è collassato/ vivo di pillole, del che ringrazio Dio» (The hills).

Per il maestro che non ha niente da insegnare, consapevole che la meta non può essere raggiunta (The goal) resta la memoria di uno scivolare nella vita, tra paradiso e inferno, come in un ballo. E allora, come in altri tempi cantava il miracolo della piccola sosta d’amore, di una notte di tregua dal male – «Signora inquieta stai qui un po’/ Finché non viene l’alba/ Lo so, sono solo una tappa/ Non sono il tuo amore», Winter lady, e io ancora la sento che risuona nei Compari di Robert Altman mentre Warren Beatty cavalca nella neve – oggi canta, gravato dal disincanto degli anni trascorsi ma grato di tutti gli attimi, di tutte le danze: «E non c’è niente da fare / se non chiedersi/ se sei disperata e discreta/ quanto me/ Fermiamoci in superficie/ la superficie è perfetta/ non c’è bisogno di andare più in profondità/ Grazie per la danza/ era inferno, era grandezza, era gioco/ grazie per tutte le danze/ un-due-tre, un-due-tre, un». Grazie a Leonard Cohen per tutte le canzoni, per tutte le danze.