Uno sguardo sull’India tra ieri e oggi: geni matematici e catene sociali

In Cinema

Escono insieme “L’uomo che vide l’infinito” di Matthew Brown, sul grande matematico Srinivasa Ramanujan, che all’inizio del 900, osteggiato da molti accademici, entrò trionfalmente a Cambridge, protagonisti Dev Patel e Jeremy Irons; e il contemporaneo “Tra la terra e il cielo” di Neeraj Ghaywan, con Richa Chadda e Vicky Kaushal, in cui l’amore sconfigge i divieti della conservazione castale

Nonostante narri le gesta straordinarie di una delle menti più brillanti dello scorso secolo, L’uomo che vide l’infinito del britannico Matthew Brown, non si lascia incasellare in quel nuovo filone di biopic “colti” ultimamente tanto di moda, snocciolati con precisione scientifica, partito nel 2001 da A Beautiful Mind di Ron Howard con Russell Crowe e di recente arricchitosi di titoli di successo come The Theory of Everything di James Marsh con Eddie Redmayne o The Imitation Game di Morten Tyldum con Benedict Cumberbatch. E quando la matematica arriva al cinema, produce ottimi risultati: lo conferma questa ennesima storia di un genio ribelle.

A differenziare il racconto delle opere straordinarie di Srinivasa Ramanujan da quelle di John Nash, Stephen Hawking o Alan Turing è l’atmosfera di cui la pellicola è intrisa, non più solo biografia a ritmo di formule quanto storia d’amore e di creatività. Dopo The Millionaire, Dev Patel torna a indossare i panni di un giovane indiano in quarantena politica ed economica, che riesce alla fine a emanciparsi da una realtà che pare immodificabile. Ora lo vediamo nel ruolo di Ramanujan, una sorta di unicum nella storia della matematica, che pur nel deserto culturale da cui proveniva, l’India d’inizio ‘900, riuscì da autodidatta ad arrivare a Cambridge e divenire il pupillo del professor G. H. Hardy (Jeremy Irons).

Forte di un riuscito equilibrio fra realtà e fantasia, e riuscendo a non scadere in certe imbarazzanti imprecisioni scientifiche di cui pellicole di questo genere tendono a macchiarsi, L’uomo che vide l’infinito è una storia romantica prima che matematica. Scoperte, liti e colpi di scena (logici, s’intende), sono la conseguenza del rapporto di “odi et amo” tra il sibillino Hardy e giovane Ramanujan, da principio non abituato alla tristezza della pioggerellina inglese. Una storia d’amore intellettuale prima che un’agiografia di due matematici, così Brown ritrae l’incontro tra i due, che l’inglese definì “l’unico episodio romantico” della propria vita. Il trasporto e le parole usate da Ramanujan per descrivere la sua disciplina sono gli stessi con cui altri parlerebbero di una bella donna o di una essere divino, e d’altronde per molti la differenza non è poi così grande.

Stupisce notare come il lessico e il trasporto di Ramunajan per i numeri (“ogni numero intero positivo era un suo amico intimo”, disse Hardy) sia legato a doppio filo alla divinità, da cui riteneva d’avere avuto in dono una mente eccezionale. La purezza d’animo e il rigore morale con cui approccia la creazione matematica sono gli stessi che ci aspetteremmo da un artista o da un filosofo: termini come divino e bellezza si rincorrono in una trama estetica e metafisica che nulla spartiscono con la boria connessa alla matematica accademica. Ma cos’è la matematica se non una forma di metafisica? Ottimo contributo alla rivalutazione d’una disciplina che di noioso e ripetitivo ha ben poco, il tutto con grazia e l’immancabile british humor

L’uomo che vide l’infinito di Matthew Brown, con Dev Patel, Jeremy Irons, Toby Jones, Jeremy Northam, Devika Bhise, Stephen Fry

 

melodramma ottimista sulle rive del gange

Nella sacralità dello scenario induista di Varanasi desideri silenziosi di libertà si alternano e s’inseguono costeggiando le lente acque del Gange. Neeraj Ghaywan mette a nudo sullo schermo i percorsi sinceri dell’anima tra le sequenze del suo poetico Tra la terra e il cielo.

Le vite della giovane Devi e di suo padre Pathak devono affrontare un grande cambiamento, quando la ragazza si concede all’amore genuino di un coetaneo, prima di perderlo tragicamente a causa delle crude imposizioni sociali. La medesima spinta emotiva avvolge in forme differenti l’entusiasta studente Deepak, innamorato di una ragazza fuori dalla propria casta, e il piccolo Jhonta, in cerca dell’affetto di Pathak. E nonostante gli spigoli dolorosi della tradizione, la purezza del sentimento si batterà silenziosamente per la propria dignità.

Per mettere in discussione un sistema socio-culturale mediante il linguaggio cinematografico, si possono scegliere numerose vie. Spesso sembra che il metodo più diretto consista in un discorso infuocato, animato da immagini forti, esplicite. Non è questo il caso, perché il regista saggiamente utilizza l’assenza di rumore in favore però di un messaggio che si fa sentire. La direzione, dal ritmo semplice, sviluppa una fedele, realistica riproduzione del mondo delle caste e del contrasto tra conservazione e modernità. Ogni elemento è trattato con assoluto rispetto e coerenza; non manca il racconto di situazioni sgradevoli, ma nei limiti di una riflessione pacata, che riesce a descriverne l’insensatezza.

Da lì si passa alla dimensione simbolica, in qualche modo “ottimista”, rappresentata dai protagonisti: da un lato i ragazzi, Devi e Deepak, emblemi di una generazione alla ricerca di emancipazione e felicità, dall’altro l’anziano Pathak, per molto tempo legato a dettami antichi, tuttavia disposto più o meno segretamente a cercare nuove strade al di là di un mondo personale già noto, soprattutto grazie alle scelte della figlia e al carattere vivace e avventuroso di Jhonta. Il regista sfrutta così i gruppi di personaggi, mostrando non solamente, di volta in volta, le loro battaglie, ma soffermandosi, quasi con preziosa dedizione, sulle singole personalità; e lo schermo rimanda una lettura completa, che accoglie il loro universo di sogni immersi però in un groviglio di complessità, dubbi, paure non meno importanti. Tutti i ruoli diventano credibili, e, accostati a snodi narrativi per niente scontati, rafforzano il dialogo con lo spettatore, cui il regista dimostra di tenere particolarmente.

Con una partitura di piccole note taciturne Ghaywan realizza un accorato inno di speranza, capace di parlare subito al cuore. Esuberante e pacato, colloca gli effetti commoventi in un contesto di verità che Tra la terra e il cielo comunica con onesta trasparenza; il coraggio alla base dell’opera si veste di buon senso e rivendica sereno la propria missione.

Tra la terra e il cielo, di Neeraj Ghaywan, con Richa Chadda, Vicky Kaushal, Sanjay Mishra, Shweta Tripathi, Nikhil Sahni