Uno dei titoli più amati di Elsa Morante assume forma scenica grazie a Fausto Cabra, già attore per Ronconi, che rivede il testo applicandolo all’attualità, alla crisi della democrazia – e cogliendone anche l’aspetto positivo
Corrono brividi a ripetizione nel sentire la bella, sentita, urgente riduzione de La storia di Elsa Morante, uno dei romanzi italiani davvero nazional popolari, edito da Einaudi nel ’74, ma attualissimo soprattutto oggi. Dopo il bel film tv di Comencini con la Cardinale nel 1987, Fausto Cabra, attore in ascesa, ultimo della famiglia Lehman («ero quello che sfascia tutto» ricorda), inquieto e curioso, paga con questo spettacolo un debito morale nei confronti della memoria del padre.
Ma è quasi un Padre di ciascuno, perché la materia del romanzo della Morante è quella dei nostri genitori e nonni, il periodo della guerra e delle persecuzioni, la povertà, l’ansia di vivere nonostante tutto e tutti. “La storia” con soli tre attori che sono una ventina dei personaggi del libro, pur tenendo fede alle parti base che sono la madre e i suoi due figli, in scena appare come un bel film neo realista, alla Rossellini, ma con la necessaria astrattezza di un teatro che non può vagare per spazio e tempo se non con l’apporto essenziale dell’evocazione e della fantasia, entrambe richiamate in servizio dall’emozionante resa di un testo che risuona forte e chiaro.
La storia della Storia, una ripetizione ci vuole, è com’e noto, quella di una povera donna, Ida, che durante la guerra vive di paure e stenti con i due figli, Nino, che passerà con disinvoltura giovanile dalle camicie nere ai partigiani, e il piccolo Useppe nato dopo la violenza di un soldato tedesco.
E poi c’è un rigoglioso contesto fatte di figure che appaiono e scappano, la signora Di Segni, vittima del razzismo delle leggi antisemite, il giovane intellettuale partigiano che fa il paio con un personaggio simile della “Ciociara” (aria di famiglia, la Morante era l’ex signora Moravia), ma quella che vince è questa povera madre coraggio in mezzo agli stenti dei bombardamenti e alla ricerca di una casa.
Uno spettacolo teatrale che raccoglie gli orrori della guerra in tre attori e una dozzina di personaggi, e Cabra riesce a rendere credibili non solo i vari cambi di personaggi ma anche che il bravo Francesco Sferrazza Papa sia il picccolo Useppe ed anche la voce buona, intima delle cose della natura, degli animali.
Il libro della Morante, morta nel 1985 a 73 anni, prima scrittrice a vincere il Premio Strega con L’isola di Arturo, fu accolto da un successo vero, sentito e profondo che si ripete oggi al teatro Santa Chiara di Brescia dove è in scena fino al 4 giugno per essere ripreso nella stagione 2010-21 e dove gli studenti scoprono emozioni inedite.
Il meccanismo quasi brechtiano da cui parte lo spettacolo è una donna che in attesa all’aeroporto si mette a leggere il libro della Morante, uscendo poi per diventare Ida, sovrapponendo quindi Cla sua personalità di lettrice che si riflette nel pubblico a quella dell’autrice, in un audace rimbalzo di prima e terza persona che è tipicamente ronconiano.
Cabra è stato infatti, prima di essere protagonista per Donnellan, un attore di Ronconi e questo azzardo nel prendere un romanzo di mille pagine e portarlo sul palco, ci fa ricordare il Maestro, ma il giovane discepolo ha smussato gli angoli intellettuali e ha dato libera voce ai fattori umani, all’epica e all’epoca dei bisogni primari da urlare. Oggi risentire quelle storie è come rivedere un capolavoro dell’epoca, Sciuscià, Paisà, Germania anno zero.
È il racconto delle ferite non tutte cicatrizzate dell’Italia uscita dalla guerra, ma Ida coi suoi due figli Nino e Useppe sono i dolori e le speranze di tutti. «Noi lo facciamo – dice Fausto Cabra ideatore e regista – senza l’ambizione di sostituirci al libro ma anzi spingendo a tornare a lui, portando in scena l’esperienza di una donna libera di viaggiare e non obbligata al confino geografico e morale dalla guerra, che legge il romanzo in aeroporto e ha due figli come la protagonista. Abbiamo reso spaziale la lettura, in un “non luogo”, con libertà di coesistenza di piani e punti di vista».
E il palcoscenico, con pochi oggetti e pochi costumi, restituisce pensieri e seduzioni, particolari del ricco universo immaginifico della Morante. Siamo in un momento in cui il teatro attinge molto alla grande letteratura; se Ronconi aveva “diretto” Nabokov ed Henry James, Gadda e Dostoevskji, Latella si appresta a mettere in scena in due serate La valle dell’Eden, Martinelli ha appena diretto Lo straniero e Cirillo lavora a Orgoglio e pregiudizio di Austen.
I tre attori dello spettacolo di Cabra, che ha ridotto il testo con Marco Archetti, corrispondono a multiple suggestioni e Franca Penone è straordinaria nell’intonare il corpo alla voce e viceversa trovando accenti molto personali e una commozione mai retorica, come Alberto Onofrietti è un perfetto Ninuzzo e altri compagni di strada mentre Sferrazza Papa, come detto, si ritaglia l’intimità della vita vista ad altezza di fanciullo.
Ma vale il desiderio costruttivo di Cabra di far rivivere la materia del libro senza mai considerarlo archeologia: «Ho letto il libro a 18 anni su consiglio di mio padre – dice – cogliendone soprattutto il lato oscuro, negativo. Poi, prima di morire sempre mio padre mi disse che gli sarebbe piaciuto vederlo a teatro e allora, rileggendolo, ne ho scoperto il lato positivo e quelle vitalità che nascevano proprio dalle zone buie. Riconnettermi a questa esperienza che è altro da me e dai miei colleghi, mi pare un atto politico per tenere allenato l’organo dell’empatia e non rifare gli stessi errori nella nostra democrazia che che più che rappresentativa è rappresentata».
Cabra e i suoi attori si mettono in ascolto insieme agli spettatori. Nella macchina della storia, che manderà al macero questi piccoli uomini e donne, siamo tutti impigliati e lo stesso romanzo vive delle macroscopiche contraddizioni di un’autrice che non dice come sciogliere l’enigma fra violenza e amore, carnefice e vittima. Dice il regista: «L’oscuro è mischiato continuamente con la luce e la vita è celebrata nel momento in cui ci si immerge nella sua fine. C’è bisogno di una compassione, una commozione primaria generata dall’amore per la vita perché il seme dell’umanità è piantato in noi e spero proprio sia un fiore e non un’erbaccia».
Fotografie © Giulio Cavallini