In “The End” di Joshua Oppenheimer una catastrofe climatica pone fine ad ogni forma di vita terrestre. E una ricca famiglia sopravvive in un bunker: la madre (Tilda Swinton), il padre (Michael Shannon) e pochi altri sono al servizio del figlio (George MacKay), che non ha conosciuto la vita di prima. Un piccolo mondo di sepolti vivi pronti a tutto per sopravvivere, copia fedele dei tanti muri che solcano il nostro mondo. Il tutto nella confezione del musical, in cui i protagonisti cantano (e ballano) i loro ricordi, la rabbia, la solitudine, la paura. L’effetto è scomodo, sorprendente e riesce a interpellarci, tra dialoghi quotidiani su quadri non spolverati e riflessioni sul capitalismo, il senso di colpa, la felicità
Vent’anni dopo una catastrofe climatica che ha posto fine ad ogni forma di vita sulla Terra, una ricca famiglia sopravvive in un lussuoso bunker sotterraneo, sepolto in fondo a una miniera di sale. La Madre (Tilda Swinton), il Padre (Michael Shannon), il Maggiordomo, il Medico, l’Amica, un minuscolo gruppo di individui, tutti al servizio del Figlio (George MacKay), che non ha mai conosciuto la vita com’era prima. Ma un giorno, contro ogni previsione, dall’esterno arriva la Ragazza (Moses Ingram), una giovane estranea che dovrà lottare fin (quasi) alla morte per farci accettare. The End racconta il mondo dopo la fine del mondo, parlando di ciò che resta della nostra umanità, oggi. Chiedendosi chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando. In fondo, le domande che i filosofi non hanno mai smesso di porre a se stessi e al mondo. Senza trovare risposte, il più delle volte. E ogni tanto scoprendo verità troppo crudeli per essere accettabili dai più.
Il regista Joshua Oppenheimer non edulcora niente, non è nel suo stile. In molti ricordano ancora lo shock subìto nel 2013 durante la visione di The Act of killing – L’atto di uccidere, documentario bizzarro e crudele, dedicato alla ricostruzione (con la diretta complicità dei protagonisti) delle atrocità compiute in Indonesia a metà degli anni Sessanta, all’epoca del colpo di stato e della dittatura militare. Al suo primo lungometraggio di finzione, il regista americano si limita a porgere allo spettatore uno specchio sghembo, straniante, che riflette ciò che siamo, nell’inevitabile deriva di un pianeta dominato da un’umanità votata all’autodistruzione, eppure ancora e sempre capace di bellezza e resilienza.
Un film abbacinante e crudele, sorprendente nella scelta di scardinare il presunto realismo usando il musical come grimaldello. Sì, il musical! Nel corso delle sue oltre due ore, The End alterna dialoghi quotidiani su quadri appesi male e non spolverati con sufficiente zelo a riflessioni più o meno profonde sulla vita occidentale e il privilegio, il capitalismo, il senso di colpa, la felicità: e spesso i protagonisti cantano (e ballano) le loro emozioni, i loro ricordi, la rabbia, la solitudine, la paura. L’effetto è sorprendente, a tratti inevitabilmente scomodo, sempre capace di interpellarci.
Perché questo piccolo mondo ermeticamente chiuso, popolato di sepolti vivi pronti a tutto pur di garantirsi la sopravvivenza, è una perfetta rappresentazione dei tanti muri che solcano il nostro mondo, delle frontiere che chiudono, dei confini che uccidono. Ma anche, ancora e sempre, dello slancio vitale che ci spinge avanti, come una volontà di potenza prepotente e avida, ma anche puro e semplice desiderio di vita che si perpetua. Costi quel che costi. Umano, troppo umano, lo definirebbe Nietzsche. E intanto Hegel ci invita con un sardonico sorriso a rileggere alcune pagine della sua opera più bella, La fenomenologia dello spirito, quelle dedicate alla dialettica tra servo e padrone.
The End, di Joshua Oppenheimer, con Tilda Swinton, Michael Shannon, George MacKay, Moses Ingram, Bronagh Gallagher, Tim McInnerny, Lennie James