Stasera con noi (7): tra Natale (ieri) e Capodanno (oggi)

In Weekend

Tra un Natale alle prese con Dpcm, dubbi e distanze e Capodanni più o meno solitari che riportano alla mente 31 dicembre felici e innamorati, buon anno di cuore a chi ci legge

Pranzo di Natale
di Francesca Caminoli

Di solito Natale nella mia famiglia si festeggia rigorosamente il 24 sera. Mai meno di una quindicina, fratelli, figli, nipoti. Cene caotiche, un po’ sguaiate, a volte scurrili, sempre divertenti. Quest’anno niente. Un fratello sta a Roma, uno vicino ma è a rischio e non vuole rischiare, loro figli un po’ sparsi in giro, una ha partorito il 20, un’altra partorirà a fine mese.  Sarò solo con mia figlia e nipoti. 
15 dicembre, iniziano le telefonate.   “Ciao mamma allora noi facciamo il 24, come al solito”. “Bene, dobbiamo vedere però che cosa decidono per gli spostamenti”. “Aspettiamo”.

16 dicembre. “Ciao mamma, sembra che saremo rossi”. “Sembra, aspettiamo ancora. Comunque c’è sempre il coprifuoco”. “Potremmo fare una specie di aperitivo e alle nove e mezza andiamo via”. “Buona idea”.

17 dicembre. “Ciao mamma, mi sa che quest’anno mi tocca fare tre Natali”. “Tre, e con chi?”. “Uno con i genitori di Gionata, uno con te e uno con Antonio”. “Ah, vero, se vuoi dì ad Antonio di venire qui, così ne fai solo due”. “Sei sicura, non ti crea problemi?” “Ma figurati, ormai”. “Va bene, glielo dico”. Antonio è il mio secondo ex marito. 

18 dicembre. “Ciao mamma, siamo rossi, allora il 22 a pranzo vengono i genitori di Gionata (suo marito) e noi il 24 da te. Antonio non può venire”. “Perfetto”. Vado a fare la spesa per la cena aperitivo. Non sono entusiasta. Ciao ciao, buon Natale e poi via di corsa, con o senza autocertificazione non ho ancora capito.

19 dicembre. “Ciao mamma, lo sai che non ci si può spostare in più di due?” “Sì”. “Possiamo venire con due macchine”. “Giusto”. Bene, allora facciamo così”. Mia figlia Sara ha due figli, di 21 e 17 anni, non possono essere spacciati per minori di 14.

21 dicembre. “Sara, questa cosa di venire con due macchine…”. “Cosa?”. “Se poi vi fermano”. “Beh, sarebbe una bella sfiga”. “Ma sì, dai hai ragione, venite con due macchine”.

22 dicembre. “Ciao Sara, ho pensato a questa cosa delle due macchine”. “Mamma, ti devo salutare perché sto preparando il pranzo per i genitori di Gionata”. “Va bene, ci sentiamo più tardi”.
Più tardi. “Ciao mamma, cos’era la cosa delle due macchine?”. “Non mi sembra una grande idea, potrei venire io con Momo da voi”
Momo è un ragazzo africano che vive con me. “Mamma, guarda che il dpcm dice che si possono spostare i figli per andare dai genitori anziani, non i genitori anziani per andare dai figli, ma se vuoi fare così per me va benissimo”. “Ci penso”.

23 dicembre. “Ciao Sara, ci ho pensato, perché non facciamo da me il 28 a pranzo che siamo arancioni e così siamo tutti più tranquilli?”. “Ma sì mamma, in fondo abbiamo fatto tanti Natali alle date più diverse e almeno a pranzo non dobbiamo correre via, facciamo il 28 e chi se ne frega delle date”. “Allora 28, però io ho fatto una spesa da aperitivo cena, lo faccio andare bene per il pranzo”. Ride.

24 dicembre sera. “Ciao mamma, buon Natale”. “Buon Natale, certo che forse avremmo potuto fare che venivate con due macchine…”.“Te l’avevo detto”. “No vabbè dai, il 28, buon Natale, che fate stasera tu e Momo?”.“Mangiamo gli avanzi del pranzo, buon Natale” Ride.

25 dicembre mattino. “Ciao mamma, buon Natale”.“Buon Natale, che fate a pranzo?”.“Siamo noi quattro”.“Potremmo venire io e Momo”.“Venite!”. “Ma, non so, oggi ci saranno molti controlli”. “Dicono”. “Lasciamo stare, rimandiamo al 28”. “Che fai a pranzo?”. “Spaghetti ai gamberi”

Il più strano pranzo di Natale che io ricordi: un’atea, un musulmano e un piatto di spaghetti ai gamberi. Comunque molto buoni. 

foto di Matt Seymour

Tre volte capodanno
di Valeria Gandus

1
Era dicembre, ero molto giovane e avevo un ragazzo che mi piaceva e con il quale stavo bene. Lo conoscevo da un po’, ma stavamo insieme solo da poche settimane. E che settimane. Prima la scoperta che mia madre aveva un brutto tumore, poi l’operazione, lunga e difficile. Dieci giorni in ospedale, io sempre accanto a lei. E fuori, nel mondo dei vivi e dei sani, lui che aspettava il mio ritorno. E finalmente ci ritrovammo. Al bar Basso (o forse al Doria?) un pomeriggio mi offrì un Alexander (quindi sì, era il Doria) e un anello: bellissimo, di design, forse danese. Non una fedina o un anellino qualsiasi, proprio un bell’anello d’argento, massiccio ma non esagerato, pulito, elegante.

Ero lusingata, nessuno mi aveva mai regalato un anello tranne i miei genitori e mia zia Gina, la zia che faceva i regali più belli, e infatti il suo anello era di Schreiber, d’oro e smalto verde. Ma vuoi mettere con l’anello regalato dal tuo ragazzo? Insomma, ero proprio felice: la mamma si stava lentamente riprendendo dall’intervento e io portavo al dito il primo pegno d’amore della mia vita. Amore, parola grossa. Con lui stavo bene, ci baciavamo e ci facevamo un sacco di risate. Ma che ne sapevo, io, dell’amore? Pochissimo, sia dell’amore romantico sia di quello carnale. Insomma ero un po’ tarda: mentre tutte le mie amiche l’avevano fatto, io avevo solo scambiato baci e strofinamenti più o meno appassionati con un tot di ragazzi, ma non avevo mai permesso a nessuno di andare fino in fondo. Né mi passava per la testa di consentirlo ora. O meglio, sapevo che il momento era arrivato, ma avevo bisogno di qualche amorevole spinta. Peccato che  lui, con zero romanticismo e esprit de finesse, mi ripetesse: “Vai dal ginecologo, fatti prescrivere la pillola”. E arriviamo alla sera dell’ultimo dell’anno. Il mio ragazzo viene a prendermi con il suo miglior amico, entrambi eleganti e, se non ricordo male, perfino incravattati. Ottima impressione sui miei genitori che mi affidano ai due bravi giovani e mi salutano con le solite raccomandazioni, divertiti, ma non fare troppo tardi, eccetera. Per tirare alla fatidica mezzanotte, si va tutti e quattro (si era aggiunta anche la ragazza del suo amico) al cinema: Giù la testa, filmone. Poi a casa sua, deserta di genitori e fratelli. Si cena con aragosta (credo la prima della mia vita) quindi l’amico sparisce in una stanza con la sua ragazza e noi due ci ritroviamo soli, su un letto, forse il suo, forse quello dei suoi genitori, questo non lo ricordo. Ricordo invece perfettamente che quasi subito mi ritrovo nuda con lui che mi guarda con meravigliato stupore e mi dice: “Ma sei una finta grassa!”. Non ho tempo di rimarcare la sua mancanza di tatto che mi abbraccia, mi accarezza, indaga il mio corpo con le mani leggere e gentili del medico che sarebbe diventato. Mi accarezza, soprattutto. Ovunque. E io a un certo punto non capisco più niente, vengo travolta da una scossa sconosciuta, che parte dal centro del mio corpo e scende a ondate giù fino ai piedi. È il mio primo orgasmo, anche se ancora non so nominare quello strano fenomeno. Lui naturalmente cerca di completare l’opera ma, mannaggia, io lo fermo. Un’altra volta dico di no. Cretina. Lui nemmeno si incazza, perché è giovane ma pur sempre un signore. Però nei giorni seguenti, torna all’attacco con la storia del ginecologo e della pillola. Forse pensa che io abbia paura di rimanere incinta. Invece ho paura e basta. Soprattutto dopo quella cosa cosa pazzesca che mi è successa a capodanno: non so niente, all’epoca, di super io e dintorni, ma so di essere una che non perde la testa facilmente e che quella volta l’avevo quasi persa. Purtroppo non del tutto, impedendomi così di scoprire quanto è bello perderla, la testa, in quel modo. Insomma, dopo un paio di settimane si è scocciato e mi ha mollata. Io ci sono rimasta male, ovvio. Ma mi è passata in fretta. E dopo un paio di mesi ho fatto l’amore per la prima volta.  Con uno stronzo, naturalmente, e non mi è nemmeno piaciuto.  Ah, poi abbiamo avuto fidanzati, fidanzate, mariti, mogli, ma siamo ancora molto amici, dopo tanti anni. E sono certa che se gli dicessi “Giù la testa!” lui saprebbe benissimo che non sto dandogli del coglione.

2
Ancora non potevo credere di aver acchiappato l’uomo dei miei sogni. Era successo a settembre, mentre stava finendo la mia ultima storia con un tizio che mi aveva riempita di corna e umiliazioni. E del tutto inaspettatamente accadde il miracolo. Un paio di aperitivi in un bar di viale Piave con  altri colleghi, chiacchiere e pettegolezzi al tavolini all’aperto in una fine estate  calda e luminosa. Poi, al terzo venerdì, quello non può, l’altra viene trattenuta in redazione, insomma ci troviamo noi due al solito bar. Io indossavo jeans e camicia a righine azzurre. Non me ne sarei mai ricordata se non me l’avesse detto lui, mesi dopo, rievocando quel fatale  tête à tête. “La camicetta era slacciata fino al terzo bottone e non portavi il reggiseno”. Ma, dico io, chi l’indossava, il reggiseno, a quei tempi? Solo le portatrici di tette dalla terza in su, e non era certo il mio caso.
Comunque, quel pomeriggio iniziò tutto. E continuò. In segreto. Eravamo colleghi e non volevamo chiacchiere. Tanto più che nessuno di noi credeva che la nostra fosse una storia importante. Lui perché si era da poco separato e, soprattutto, aveva appena sconfitto una grave malattia. Quindi, diceva, ora voleva tornare a vivere, divertirsi e non impegnarsi. Io perché ancora non riuscivo a credere di interessargli davvero, che indossassi o meno il reggiseno. E  poi perché, be’ insomma, che cosa ci si può aspettare da uno che al primo bacio ti dice “Ora non metterti in testa strane idee in testa, eh”? 
Intanto, però, erano passati tre mesi e noi eravamo ancora insieme. Non avevamo programmato niente per la sera dell’ultimo dell’anno, ma il giorno prima mi disse che era stato invitato da un nostro collega a una festa che si prospettava divertente. Fedele all’imperativo della segretezza, decise di non ufficializzare il nostro rapporto ma di farmi passare per una povera sfigata che si ritrovava da sola a San Silvestro. “Che dici di invitare anche lei, poverina?”. E la poverina si presentò strafica, con una gonna stretta, tacchi e un top di velluto marrone e nero (questa mise sì, me la ricordo). Nessuno, credo, sospettò nulla di noi. Nemmeno il mio ex, che s’imbucò alla festa (era un collega anche lui, ma di un altro giornale) con la sua nuova fiamma. Fu una bella serata, con belle persone (tranne il mio ex), buoni cibi e ottimo, abbondante alcol. Ce ne andammo a tarda notte piuttosto alticci e ci trovammo immersi in una nebbia fittissima. Il nostro ospite abitava appena fuori Milano, ma con quel muro di nebbia ritrovare la strada di casa sembrava impossibile. Girammo a lungo a vuoto e a un certo punto, dopo aver varcato un grande cancello, ci trovammo in un luogo strano, spettrale. E ci credo: era il cimitero del paese. Chiedendo venia ai defunti, ridemmo come pazzi per quella strana deviazione, facemmo marcia indietro e in qualche modo riuscimmo rivedere le luci della città. Non so se furono quei morti, forse risvegliati dalle nostre risate e dai nostri baci, a benedire la nostra unione, ma non ci lasciammo più. Restammo insieme per sempre, cioè per tutti i venticinque anni che il grande amore della mia vita, il padre di mia figlia, aveva ancora da vivere.

3
E poi la vita continua, deve continuare, sei ancora giovane, insomma abbastanza giovane, cinquant’anni. E a un matrimonio incontri questo tipo fuori dall’ordinario: tutti in tiro per l’occasione e lui in giacca di tweed,  Lacoste e scarpe sportive. Balla come un matto con gli sposi e gli invitati le classiche danze di un matrimonio ebraico. Io no perché ho i tacchi che affondano nel prato e non mi sento troppo a mio agio a quella festa in cui conosco poche persone. Sono lì ai bordi dell’improvvisata pista da ballo, così ferma, immobile, impalata, che il tipo strano mi scambia per un attaccapanni e mi getta addosso la sua giacca (suda copiosamente sotto quel tweed e il sole di aprile)  dicendomi con marcato accento romano: “M’aa tieni? Grazie”. Io rimango un po’ interdetta, ma a quel ricevimento così elegante e formale,  il romano mi garba proprio per quel suo essere così tranquillamente sbagliato. Non so nemmeno come, ma a fine pomeriggio mi chiede un passaggio fino alla stazione per lui, che deve tornare a Roma, e per il rabbino che deve prendere il treno per Pisa. In quel breve tragitto in auto scopro solo come si chiama, che è uno scienziato (biologia molecolare) e che suo padre è un archeologo. Non ci scambiamo nemmeno i numeri di telefono. Non mi pare interessato a me. Io, invece, un po’ sì. Anche se è palesemente troppo giovane: sette anni meno di me, scoprirò poi.
Non è importante come ci siamo riacciuffati. Ma è successo. E per sei anni abbiamo fatto la spola fra Milano e Roma. Un fine settimana scendevo io, il seguente saliva lui. Ho conosciuto e amato suo figlio, al quale ho insegnato ad andare in bicicletta, a riconoscere Venere, la prima “stella” della sera, e a cantare La Marsigliese. Ho amato avere di nuovo qualcosa che assomigliasse a una famiglia, questa volta allargata. Ma forse, più che lui amavo la vita che facevo con lui: lo seguivo quasi a ogni congresso in giro per il mondo, dall’India al Giappone, dagli Stati Uniti a Israele, al Messico e molti altri Paesi. Abbiamo passato insieme tutte le sere di tutti i 31 dicembre di quei sei anni. Ma il più bello è stato l’ultimo. Stavamo raggiungendo a tarda sera un albergo a Monument Valley, reduci dall’ennesimo congresso non ricordo più dove. Guidava lui, lentamente, perché a San Silvestro negli States cominciano a bere presto e bisogna avere mille occhi. Eppure, benché più che ligi al codice stradale,  a un certo puto veniamo fermati dalla polizia. Si avvicina uno dei due poliziotti, ci fa scendere e ci chiede i documenti e… il suo fiato emette pesanti effluvi d’alcol! Cioè, noi stavamo attenti a non imbatterci in guidatori ubriachi e venivamo fermati da un poliziotto in conclamato stato etilico. Io ero terrorizzata, ma quando quello vide dai documenti che eravamo italiani, disse qualche battuta del cavolo, fece una grassa risata e ci lasciò andare. Arrivammo all’albergo molto tardi, un hamburger, una birra e via in camera. Però avevamo una bottiglia di “champagne” californiano o australiano, insomma una porcheria, e ce la scolammo tutta ballando alla musica di una buona stazione radio e brindando brilli e felici al nuovo anno. L’anno in cui sarebbe finita la nostra storia.

In apertura foto di Immo Wegmann/ Unsplash

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