Si è appena conclusa all’Osservatorio di Fondazione Prada in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano “A Kind of Language: Storyboards and Other Renderings for Cinema”, mostra curata da Melissa Harris che esamina il processo creativo prima della realizzazione di un film esplorando storyboard e altri materiali come moodboard, disegni e schizzi, scrapbook e quaderni, sceneggiature commentate e fotografie. A posteriori, le riflessioni di Giacomo Agosti su questa specie di linguaggio.
Solo superficialmente si potrebbe dire che A Kind of Language sia la mostra di una cultrice di fotografia (Melissa Harris) anziché di cinema. Infatti, se c’è qualcosa che tocca e resta in mente, è la varietà e la quantità di documenti che vengono offerti al pubblico (è riduttivo definirli solo “story board”, cioè rappresentazioni di inquadrature in sequenza), in modo che si generino interrogativi fruttuosi.
Primo fra tutti, la possibilità di guardare il cinema “stando in piedi”. Sembra che l’effetto di “casa” creato dalla visione cinematografica sia qualcosa fatto per essere vissuto stando seduti, abbandonandosi al flusso, imbevendosi di stimolazioni e – nel caso della Golden Age hollywoodiana (De Mille, il cinema di Selznick) – facendosi avvolgere dal fascino di ciò che è già stato e non sarà più.

Può tutto questo entrare e rivivere dentro di noi nello spazio itinerante di una mostra concepita come una serie di tavoli da disegnatore ? Sì, nella misura in cui guardando gli schizzi di Biancaneve con pochi colori e i layout e ripetendo l’operazione per l’Apprendista Stregone di Fantasia e poi ancora con Pinocchio, noi SIAMO quei personaggi. Noi veniamo agiti da quei tratti sulla carta e sugli acetati che ci aprono nuove curiosità su un materiale che credevamo assimilato dall’infanzia. Gli occhi di Biancaneve non erano mai stati così puntiformi e caricaturali, così simili al tratto delle creazioni e delle creature di Fleischer (Braccio di Ferro e Betty Boop), come nei confronti offerti da questa mostra. Ripeto, non si tratta solo di “story board”. I tratti di Fellini per Amacord sono pure suggestioni rispetto ai disegni più pittorici e meticolosi di Pasolini per Mamma Roma (quanto diversi, questi ultimi, pertinenti e sorgivi rispetto agli accostamenti dell’effetto dipinto – l’inquadratura come un quadro – a cui siamo abituati nelle trattazioni critiche più estese). Le maquette per il castello di Manderley all’inizio di Rebecca, calde e piene di descrizioni, non hanno nulla a che vedere con la padronanza serrata delle angolazioni schizzate da Saul Bass per la scena della doccia in Psycho.
L’eterogeneità, lo ripeto, apre le scoperte particolari.

Anche se ho scritto un libro sul musical cinematografico, non ho mai pensato di guardare le sequenze di pura danza attraverso la scansione dei disegni preparatori (sono in mostra quelli per l’inizio di West Side Story, sempre di Bass, e quelli per il sogno di Oklahoma!, per la regia di Zinnemann). La mostra ci salva da una serie di tentazioni e di assimilazioni stilistiche e ribadisce la sincerità di voler esporre solo copie e solo copie di materiali ad uso interno, con un destinatario riconoscibile dalle annotazioni: lo storyboard parla al produttore, parla al regista, parla al direttore della fotografia, parla al montaggio. Salva tempo di lavorazione e risparmia energie. Ci ricorda nomi che altrimenti faremmo fatica a trovare (i singoli disegnatori delle migliaia di schizzi per Biancaneve).

Evitando anche l’ordine cronologico, la mostra ci addossa un’altra e più importante responsabilità, e cioè spostare il ragionamento in termini grafici sulla produzione digitale, ormai attuale da trent’anni e più. Si disegna ancora per un cinema che non si fa più con la pellicola ? Si disegna col computer ? Si animano da sé i fogli – come nel caso in mostra del Budapest Hotel di Wes Anderson ?
Per arrivare a questo passaggio, chi ha la mia età deve passare dalle amate forche caudine dell’horror e dell’action movie anni 80-90: chi avrebbe detto che uno dei Nightmare fosse stato disegnato tenendo una riproduzione della Santa Teresa del Bernini sul tavolo ? Si deve passare dal cinema di Demme e dall’esempio, incrollabile e seduttivo (ormai un classico moderno, quasi un Disney di oggi) di Myazaki.
Per me la mostra si chiude con i registi contemporanei dell’Estremo Oriente, Cina e Corea. Un allargamento di visione che è un segnale di ribaltamento e bilanciamento del mondo, di curiosità sagace da parte dei curatori (la mostra va pensata in parallelo alla programmazione del cinema della Fondazione Prada) e di una moltiplicazione tecnica che va nella direzione opposta rispetto alle attese della pellicola.

La videocamera permette di provare direttamente girando, di serbare una traccia in movimento alla quale può fare da confronto l’effetto finale del film finito. L’esempio del lavoro della regista di Yolo Jia Ling per molti può essere usuale: per me è straordinario.
In copertina: Still del video Ward 81 Voices, 2023, Falkland Road Inc. / Courtesy Mary Ellen Mark Foundation