Spinalonga o del potere

In Letteratura, Teatro

“Spinalonga. Una drammaturgia sulla corruzione” di Vincenzo Frungillo è un testo teatrale che ha per tema il potere e guarda alla possibilità di ricostruire identità sbriciolate, di rifondare un senso individuale e collettivo.

Non è la prima volta che il poeta Vincenzo Frungillo si confronta con la scrittura teatrale. Lo aveva fatto già prima, con Il cane di Pavlov, un monologo in versi insignito nella precedente versione in prosa del Premio Fersen, una dissertazione sul tema del potere nelle relazioni amorose. Anche in quel caso la trattazione andava a indagare le zone dell’eccesso, individuate nel rapporto sessuale e sadomaso (reale, concreto, ma assurto anche a simbolo) fra il protagonista Bruno e la sua amante-collega, Martina. In Spinalonga. Una drammaturgia sulla corruzione  (Zona Contemporanea edizioni, 2016) il marginale è costituito invece dalla menomazione, dall’handicap fisico che riflette quello relazionale e psichico.

La vicenda narrata dal testo (che rispetto al monologo si presenta più strutturato, con atti, personaggi e un plot più robusto) nasce da una discrepanza cronologica funzionale alla trama: immaginare che il lebbrosario, l’ultimo in Europa, chiuso già nel 1957 dopo più di 50 anni di vita, fosse ancora aperto durante la dittatura dei colonnelli, che invece come sappiamo si instaurò dopo il colpo di Stato del ’67.

Il tema è quello del Potere, che suscita più disprezzo non tanto quando è esercitato in modo netto e consapevole, come nel caso del Capitano, ma quando è eseguito da chi sarebbe forse più portato al bene e invece decide per il male, spinto da fini assolutamente mediocri. Un esempio? Il medico dell’isola, un personaggio che esce dall’ombra lentamente, così come lentamente se ne scopre la natura vigliacca e doppiogiochista. La verità emerge a poco a poco: è stato proprio lui ad aver tradito Elena e i suoi amici studenti – ci si riferisce probabilmente alle vicende del Politecnico, nel ’73; e per cosa, poi? Cose trite, che annegano in un orizzonte piccolo-borghese: la carriera universitaria, la gloria, il riconoscimento.

Non è molto lontano, questo dottore, dal generale Eichmann che sfuggì a Norimberga e venne processato in Israele sotto gli occhi di Hannah Arendt, la quale attorno alla vicenda scrisse uno dei saggi più importanti del Novecento, La banalità del male. È un male banale, quello del medico, un male che viene denunciato non solo da Elena, giunta sull’isola per smascherarlo, fingendo in prima battuta di non essere al corrente del suo giochino, ma dallo stesso Capitano, che rappresenta il Potere tronfio e conscio di poter muovere per mezzo di blandimenti le proprie pedine prive di spessore etico.

Quando Giancarlo Majorino parla di “Elementi affabili”, nella Dittatura dell’ignoranza, si riferisce proprio a casi analoghi (non a caso nel lungo poema intitolato Viaggio nella presenza del tempo si cita a un certo punto un passaggio tratto da Memorie del terzo Reich di Albert Speer, l’architetto di Hitler); gli “Elementi affabili” sono gli stessi che spingono la classe media, l’unica ad avere a disposizione le condizioni materiali per ribellarsi al Potere, a corteggiarlo per il bisogno di essere narcisizzata e per accaparrarsi quei beni materiali che lo stesso le concede e che le rendono la vita più comoda (l’automobile e la lavatrice ieri; la tecnologia oggi).

Chi è veramente immune ai blandimenti del Potere è il protagonista della storia, Epaminonda, il quale si presenta sin dalle prime pagine come colui che ha uno sguardo diverso sulle cose del mondo: a lui, che è cieco, che al posto delle mani ha dei moncherini (e quindi, se consideriamo il ruolo della mani nel teatro, per esempio nel personaggio di Lady Macbeth, è incapace di compiere il male) non rimane che la nuda vita, per citare l’espressione usata da Agamben in Homo Sacer; e questo fatto, di per sé svantaggioso, come tutte le cose gode di un risvolto positivo, dal momento che l’essere collocato ai margini, in una zona dove la vita già scivola nella morte e quindi in un certo senso la ingloba, gli permette un continuo rovesciamento nei confronti del senso comune, in questioni spesso macchiate da retorica come l’amore, ma soprattutto la speranza e la fede.

Epaminonda non rimane fermo, evolve: la sua è una retta che rifugge dal cerchio. Per il tramite di Elena, simbolo anche della Grecia classica, ricorda il passato, la relazione amorosa con una giovane donna che gli ha scaldato e gli scalda ancora il cuore. Elena scioglie le miniere di sale dentro di lui, agisce come forza squassante rispetto al suo cinismo. Se all’inizio è velata, e non se ne conosce l’identità (anche se ha “una stanza tutta per sé”, ciò che ci suggerisce, rimandando al titolo dell’opera di Virginia Woolf, che non può che trattarsi di una donna) a poco a poco emerge, ma sempre ritornando nell’ombra: in questo senso, funziona come l’Aletheia greca, la verità che emerge solo per uno svelamento che continua ad aver bisogno del buio per esistere e non può risolversi nella sola luce. Molteplici sono i rimandi testuali, a partire dalla Tempesta di Shakespeare e al personaggio del fool, che corrisponde a Epaminonda, ma non solo: citiamo anche La peste di Camus e Cecità  di Saramago.

Rispetto alle opere precedenti di Frungillo, questo libro si innesta in un percorso coerente che risponde al contemporaneo non per imitazione, bensì per antitesi, non puntando sulla decostruzione ma sulla costruzione. Anzi, in questo caso si fa un passo  avanti, perché se alla fine vince il Potere (ed è un dato storico, prima ancora che letterario), dall’altra il testo si conclude con una nota positiva: la possibilità, attraverso la relazione, di ricostruire identità sbriciolate, di rifondare un senso individuale e collettivo.

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