Sigfrido non passa alla Storia

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Sembra una congiura ma alla Scala non si riesce ad avere (Barenboim a parte) una Tetralogia come Wagner l’avrebbe voluta. Anche questa messa in scena dal regista McVicar (è in corso al Piermarini la terza parte, “Siegfried”) non sembra destinata a lasciare il segno. Un “Ring” da sentire più che da vedere grazie alla sensibilità della direzione di Simone Young e alla buona prova dei cantanti

Congiunzione di astri o congiura umana? Wagner, dio del Teatro Totale, in cinquant’anni non ha avuto alla Scala nessuna Tetralogia di indiscutibile teatro totale, tranne in un caso. Ora che è andato in scena anche Siegfried, terza opera e seconda giornata del nibelungico Ring, siamo certi di quel che L’oro del Reno e Walkiria ci avevano già fatto intuire nelle due produzioni precedenti: il ciclo firmato da David McVicar non passerà alla storia non dico come un capolavoro, ma nemmeno come un progetto di valore. Per un loggionista impenitente, nemmeno di qualità. E siamo al quarto Ring in mezzo secolo. 

Nel 1973 era balenato il grande progetto con la regia di Luca Ronconi. Ma fu solo un lampo: dopo aver visto come Ronconi affrontava L’oro del Reno, il direttore emerito Wolfgang Sawallisch non ne volle sapere: protestò la lettura e andò avanti da solo. Bellissima musica, signor Wagner, ma niente teatro. E questo non è wagneriano. 

Nel 1994 Riccardo Muti si assunse la responsabilità e il rischio di un nuovo Ring – vent’anni senza, non sono da teatro come-si-deve – e cominciò con l’opera a lui più congegnale, Die Walküre, affidandola al regista André Engel. Non piacque. Due anni dopo toccò a Das Rheingold, che dovrebbe venire prima. Ma visto com’era stata (mal) accolta Walkiria dal pubblico e quanto poco il nuovo progetto per L’oro del Reno piacesse al direttore, il prologo del Ring venne eseguito per prudenza (rinuncia) in forma di concerto. Siegfried (aprile 1996) rimase nelle mani di Engel, ma una nuova fredda accoglienza dello spettacolo indusse Muti a passare il Crepuscolo degli dei a Yannis Kokkos, più neutro e prudente. Insomma, un Ring come minimo a macchia di leopardo.

Solo tra il 2010 e il 2013, grazie a Daniel Barenboim, direttore wagneriano per istinto ed eccellenza, la Scala è riuscita a produrre una Tetralogia come Wagner l’aveva pensata: le quattro opere nel giro di due anni e la ripresa del ciclo intero in due settimane adiacenti, i quattro titoli a giorni alterni dal lunedì alla domenica. Il progetto scenico era affidato al belga Guy Cassiers, che lasciò molti un po’ freddi, ma che al confronto con ciò che nemmeno si era visto (Sawallisch), ch’era stato allestito a pezzi (Muti) e oggi si sta malinconicamente completando, rimane il migliore dei risultati. Aveva almeno i crismi dell’intelligenza e della riflessione, con il filo rosso (vero, luminoso) che dalla prima all’ultima opera moltiplicava a vista le tante morti che affollano la Tetralogia e il mondo bellico, maschilista (è il caso di ricordarlo?) di Richard Wagner. 

David McVicar segue con scrupolo il libretto e le didascalie, il che piace molto ai ragionieri del teatro, ma spesso si riduce a pedanteria se non c’è un fuoco dentro. Il suo Siegfried ha tutte le cose a posto: il mondo sotterraneo dei Nibelunghi con le sue brave caverne, la fucina dove Mime fa il suo mestiere di fabbro, il forno, il mantice, il bidone dell’acqua in cui immergere i metalli. E lui, Mime, che ha fatto crescere Sigfrido, il puro che non conosce paura ma neanche amore, McVicar insiste a farlo un po’ padre e un po’ madre, che inveisce e ancheggia, e come mamma si mette le scarpe col tacco. Una divertente macchietta, che Wolfgang Ablinger-Sperrhacke canta e muove con qualità e convinzione, prendendosi i migliori applausi insieme a Klaus Florian Vogt, ottimo Sigfrido, a Michael Volle, sempre solidissimo Wotan/Wanderer, a Simone Young, direttrice di grande rispetto che il pubblico in fondo considera la vera protagonista. 

Se vogliamo conoscere o fare il ripasso di come si forgi un metallo, McVicar è esauriente: nell’atto primo, quando Sigfrido rimette insieme la magica spada Notung di suo padre, spezzata dalla lancia di Wotan in un tempo lontano, non c’è passaggio che venga tralasciato. Nell’atto secondo, i giganti del mondo di sopra sono enormi alberi minacciosi e il drago Fafner è tutto intero, enorme, tentacolare, anche se mosso come un grandioso fantoccio da servi di scena che attraversano lo spettacolo ogni volta che sia necessario dare vita, con un briciolo di astrazione, ad elementi terzi (come l’uccellino che parla a Sigfrido e lo consiglia bene, come nessun umano o divino fa). Nel terzo atto riappare dopo Walkiria la grande maschera mortuaria di Wagner, stesa a terra come il monte del Walhalla. La rupe sulla quale Brünnhilde riposa un sonno imposto come punizione da Wotan, cinta di fuoco, è una mano un po’ alla Dalì che suggerisce un pur giusto tratto surreale. Le scene sono di McVicar e della sua stretta collaboratrice Hannah Postlethwaite. Il clima è fiabesco ma corrusco, fatto di materia ruvida, di segno contorto.

McVicar dà il meglio di sé nei momenti e nei personaggi che gli consentono la commedia buffa: Mime sempre in caricatura, Alberich che trascina le sue povere cose in un carrello da arcaica Esselunga. Sigfrido e Wotan non si schiodano invece dalle convenzioni wagneriane e teatrali consumate dagli anni. Gli eroi e gli dei non piacciono molto a McVicar, e non si può dargli torto. Dove il suo talento di regista potrebbe liberarsi, nell’atto terzo, nella lunga e memorabile scena in cui Sigfrido e Brünnhilde si riconoscono come esseri umani, consapevoli protagonisti del mondo che verrà, e soprattutto conoscono l’amore, le dinamiche dei sentimenti sono gusci vuoti, i gesti impacciati, gli abbracci ridicoli.

Il finale è davvero deludente e in qualche modo coinvolge anche Simone Young negli esiti meno felici della sua pur notevole direzione. Le lunghe arcate vocali e sinfoniche degli atti primo e secondo, le governa con cura; le infinite riapparizioni dei temi ricorrenti che Wagner definiva “vettori dei flussi di passione” le fa emergere con chiarezza. I fraseggi scivolano veloci dallo squillo degli ottoni alle carezze degli archi. L’orchestra della Scala suona precisa e limpida come sa fare se ben guidata. Ma il finale, quando l’ottimo Klaus Florian Vogt è onestamente affaticato e la Brünnhilde di Camilla Nylund mostra il metallo della voce, è meno a fuoco e lascia l’amaro in bocca.

Siegfried rimane in scena ancora il 13, 16 e 21 giugno. Nel 2026 la Scala allestirà Il crepuscolo degli dei e in giugno presenterà il Ring intero due volte. Per coincidenza, a centocinquant’anni esatti dalla prima rappresentazione del 1876 a Bayreuth. Più per le orecchie che per gli occhi.

Foto: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Teatro alla Scala: Richard Wagner, Siegfried. Dirige Simone Young, regia di David McVicar (repliche 13, 16, 21 giugno)

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