Fino all’8 giugno il PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta “Body of evidence”, l’ampia personale a cura di Diego Sileo e Beatrice Benedetti dell’artista iraniana Shirin Neshat (1957, Qazvin), vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1999, del Leone d’Argento per la Miglior Regia al Film Festival di Venezia nel 2009 e del Praemium Imperiale a Tokyo nel 2017. La mostra ripercorre oltre trent’anni di carriera, attraverso quasi duecento opere fotografiche e una decina di video-installazioni, entrate a far parte delle maggiori collezioni museali al mondo, come quelle del Whitney Museum, del MoMA, del Guggenheim di New York e della Tate Modern.
I dominanti, in generale, negano la coscienza dei gruppi appropriati e gliela negano proprio per il fatto che li considerano come delle cose. Inoltre, tentano costantemente di far loro ingoiare questa coscienza per il fatto che la coscienza dei dominati rappresenta una minaccia per lo status quo. I dominati la difendono coi denti e cercano di svilupparla con qualsiasi mezzo inventando modi per proteggerla e difenderla con l’astuzia che li caratterizza (le donne sono “bugiarde, i neri sono “infantili”, gli arabi sono “ipocriti”).
C. Guillaumin
Un uomo disgustoso dagli occhi porcini urla sudaticcio a petto nudo e occupa un palco richiamando a sé l’attenzione del pubblico dopo aver amabilmente cantato “I love you until I die”; uomini vestiti in camicia bianca si alternano a cannoni e mura di cinta, altri camminando sotto il sole, sostengono un cadavere.
Soldati, sbirri, guardie, predicatori: la figura maschile è struttura sociale mentre il canto gruppale delle donne è un suono di riconciliazione con la terra ritmato dal gesto compulsivo della disintegrazione della roccia, dello scavare tutte assieme la terra con le mani.


Copyright Shirin Neshat Courtesy l’artista, Gladstone Gallery e Noirmontartproductions
Negli scenari e nei personaggi dal sapore pasoliniano che si susseguono nei video di Shirin Neshat esposti al PAC pare di riuscire a percepire tutto il peso e il sapore malsano e ideologico del conflitto tra dominati e dominanti che si fa prassi e dunque carne, corpo, evidenza. Nei gesti rituali e nei volti iconici delle donne di Neshat che si muovono, ci guardano, ci interpellano attraverso canti collettivi e sguardi raggelanti, c’è tutta la violenza della condizione di subordinazione che vivono da sempre i dominati che covano in sé stessi la voglia di riscatto. Da “Soliloquy (1999)” a “Rapture (1999)”, da “Roja (2016)”, passando per “Fevor (2000)” fino a “The Fury (2022)” assieme alle quasi duecento opere fotografiche, la mostra al PAC, curata da Diego Sileo e Beatrice Benedetti, visibile fino all’8 giugno, viene definita dalla stessa artista la più significativa retrospettiva del suo lavoro in Italia.
Un’operazione “politica e poetica”, parte di una volontà dichiarata dell’artista che ci parla di arte intesa come necessità di resistenza, “prova della storia” e testimonianza ma sopra ogni cosa, necessità di riconnessione con il paese di origine: non è un caso che Shirin rimarchi come punto di inizio del suo percorso il 1990, anno del suo ritorno in un Iran profondamente mutato dai moti rivoluzionari del ‘79 che avevano dato vita alla repubblica islamica.


Copyright Shirin Neshat. Courtesy l’artista e Gladstone Gallery
La sua celeberrima serie “Women of Allah” inizia poco dopo, nel 1993 e offre una visione profonda e complessa della condizione femminile in Iran e nel mondo islamico attraverso ritratti e autoritratti accattivanti, iconici, violenti che hanno saputo diventare un punto di riferimento nelle proteste femministe in medio oriente e questo perché si tratta di immagini che indagano uno specifico rapporto del sessaggio: le religiose, come le puttane, incarnano un ideale di femminilità, sono entrambe le figure allegoriche di un rapporto sociale che si dispiega quotidianamente e che unisce entrambi i gruppi di donne (C. Guillaumin) e, sebbene Shirin dichiari di “dare voce” a quei volti femminili scrivendo sulle foto versi di Rumi in persiano, in realtà ci sta ricordando che il marchio del corpo è da sempre stato imposto solo ai dominati (schiavi, deportati, internati).
Tra i diversi modi di appropriazione delle donne, oltre all’uso della forza, al mercato del lavoro e all’arsenale giuridico, v’è il confinamento spaziale; lo stesso che pare segnare la biografia e la produzione artistica di Shirin Neshat nata a Qazvin, città a nord di Teheran, nel 1957, vissuta a New York e dichiarata poi “persona non gradita” dal governo iraniano.

Quello di Shirin con gli Stati Uniti resta tuttavia un rapporto complesso che emerge con forza e urgenza in operazioni come “Land of Dreams (2021)”: il ritratto di un’America contemporanea che senza sogni, può solo essere preda della volgarità trumpiana e dell’ironia violenta di una cultura suprematista bianca mai stanca di imporsi con la forza dell’instupidimento generalizzato coadiuvato dalla propaganda e l’oppressione delle armi. La stessa insopportabile ironia criminale per cui è possibile pensare Gaza come a un insieme di resort di lusso, attraversati da Tesla, costruiti su un mare di sangue.
Violenza, oppressione, ingiustizia, le opere di Neshat invitano a riflettere su dinamiche di potere, religione, dignità e identità come nella serie fotografica “The book of king (2012)”, ispirata al poema dell’XI secolo “Shahnameh” (Il libro dei re) di 60.000 versi del poeta persiano Ferdowsi, ancora oggi considerata una delle più imponenti narrazioni della storia persiana fino alla conquista islamica della Persia nel VII secolo.

Inchiostro e acrilico su stampa ai sali d’argento.
Copyright Shirin Neshat Courtesy l’artista, Gladstone Gallery e Noirmontartproduction
“The book of king” è un archivio di volti che rappresentano un tributo al Green Movement del 2009, in cui l’artista era politicamente attiva e presente in manifestazioni e scioperi della fame a sostegno delle proteste in Iran. Una raccolta di martiri e carnefici provocanti che testimoniano la loro presenza graffiante nel panorama sociale.
La sensazione di fronte a questi ritratti è quella di essere immersi in un’unica grande opera dall’enorme potenza evocativa e narrativa in cui ci si chiede costantemente quali di quei volti siano davvero volti di martiri e chi, tra quelli rappresentati come i villani, sia davvero un oppressore. C’è chi ritiene secondaria una riflessione di questo genere e chi invece sostiene che possa fare la differenza per un lavoro che viene percepito come politicamente segnante.
Questa distanza chirurgica che Shirin pone tra sé e i corpi reali della sua terra, è la stessa che si percepirà in tutti i lavori successivi, frutto di una “stanchezza della nostalgia di casa”, che non hanno più il sapore dell’esilio e della verità e di cui approfitterà per aprirsi al mondo e non solo all’Iran, pensando erroneamente che la nostalgia di casa sia una scelta e non un testamento spirituale che si riceve.

C’è una cosa che più di tutte mi ha emozionato dei vari racconti di Shirin Neshat sulla sua vita e sul suo lavoro: si tratta della storia di un lembo di terra per cui sua sorella in Iran ha intrapreso una battaglia legale col governo che voleva toglierle la terra di suo padre, dapprima assetandola e facendo seccare gli alberi da frutto e in un secondo momento attraverso un atto di espropriazione. Alla fine sua sorella ha vinto. Presidiando, resistendo, avendo la coscienza esatta del posto che occupa nel mondo.
Anche questa immagine, come quelle evocative presenti nelle sue opere, sfida gli stereotipi occidentali rivelando tutta la visceralità e la forza del legame col proprio luogo d’origine. Lo stesso legame, lo stesso motore nostalgico che ha portato Shirin Neshat a regalarci alcune delle sue visioni più belle.
Quando si è presenti a se stessi, per quanto dominati, non si riesce a buttar giù il rigurgito dell’oppressione per tutta la vita, tollerare la prepotenza di chi mena o la vigliaccheria di chi dall’alto del proprio ruolo privilegiato inneggia all’apartheid, sostenere un modello sociale in cui ordine e sicurezza vengono imposti a suon di manganelli, assistere a massacri e genocidi subendo e assorbendo la convinzione di non poterci fare niente, che è meglio stare zitti, che i topi sono usciti di nuovo dalle fogne.

Come in “The Fury”, bisognerebbe iniziare a danzare violentemente per strada, occupare lo spazio, dare vibrazione alla rabbia, far risuonare le proprie origini, le proprie vertenze.
L’eredità di Shirin Neshat ha direttamente a che fare con tutto questo: la costruzione di un’identità e il sentimento di appartenenza ci aiutano a capire esattamente chi siamo; la nostalgia di casa ci indica che posto abbiamo nel mondo, quali tra i tanti sono i nostri valori; la nostalgia ci suggerisce da che parte della barricata stare e, soprattutto, quale striscia di terra difendere.
Shirin Neshat, BODY OF EVIDENCE, fino all’8 giugno 2025
In copertina: Shirin Neshat, Soliloquy, 2000. Still da video. Video installazione a due canali.
Copyright Shirin Neshat. Courtesy l’artista e Gladstone Gallery