Confessioni di una serialista

In serieTV, Weekend

No, Paolo Giordano, non siamo d’accordo! Ecco perché (democraticamente) bearsi delle ottime serie tv, come di un meraviglioso romanzo di 800 pagine

Nel 1836 Charles Dickens pubblicò sotto forma di fascicolo, il primo capitolo de Il Circolo Pickwick. Dopo un inizio difficile, alla quarta uscita l’opera arrivò a vendere 40 mila copie. Da allora l’entusiasmo per la pubblicazione si mantenne vivo fino all’ultima parte della saga, uscita ben un anno e mezzo dopo. Dickens era una macchina da guerra e da allora regalò ai suoi lettori capolavori seriali come David Copperfield, La piccola Dorrit, Il nostro comune amico… E come lui Alexandre Dumas, Wilkie Collins, Henry James utilizzarono questo genere di uscite. I romanzi a puntate rivoluzionarono il mondo della letteratura: solo così i ceti meno abbienti poterono finalmente permettersi di leggere volumi altrimenti troppo costosi e i serial divennero anche veicolo d’idee, una forma di democratizzazione del pensiero, di vicinanza con il popolo. Se fosse vissuto nel 21° secolo probabilmente Dickens sarebbe stato un grande scrittore per le serie TV. Invece di ShondaLand, la casa di produzione di Shonda Rhimes, la prolifica creatrice di Grey’s Anatomy, Scandal e il recentissimo How to get away with murder, avrebbe fondato Charland. E sarebbe stato un grande showrunner.

Eppure qualche giorno fa, dalle pagine del Corriere della Sera, Paolo Giordano si chiedeva se tutto questo paragonare le serie tv ai romanzi non fosse una forzatura. Non credo. Anzi, penso che quello che ci fa amare le serie sia proprio lo stesso meccanismo che ci tiene incollati alle pagine di un libro. Sono convinta che coloro che trangugiano episodi su episodi di un serial siano proprio i grandi lettori, gente abituata a smazzarsi tomi di 800 pagine come se bevesse un bicchiere di latte. Perché nelle serie, quelle che dai  Sopranos a oggi hanno contribuito alla nascita di una nuova forma di narrazione di qualità, si ritrovano tutte le caratteristiche che fanno grande un romanzo: un’ottima trama, dialoghi impeccabili, la lenta e progressiva costruzione di protagonisti credibili che impariamo ad amare. Ricordo ancora con gioia una domenica di anni fa in cui iniziai a leggere un libro a mezzogiorno e continuai senza posa fino a mezzanotte. Non mi sono mai mossa dal letto e quando spensi la luce avevo un gran mal di testa, ma avevo anche fatto fuori cinquecento pagine in un giorno. Beatitudine.

A volte faccio lo stesso con le serie. Potrei vedere 7 o 8 episodi in un giorno. Stesso mal di testa, stessa beatitudine. E lo sa bene Netflix che dispensa le sue produzioni in una botta sola come ha fatto con House of Cards e Orange is the new black. 12 o 13 episodi che la gente può decidere di somministrarsi come preferisce. Tutto d’un botto o poco alla volta. Come si vuole. Pensate alla febbre Downton Abbey (nella foto Maggie Smith). Perché se non c’è niente di più intimo del rapporto che si ha con un libro, ormai lo stesso avviene anche con una serie tv. Tant’è vero che i serialisti seri, perdonatemi il gioco di parole, le loro puntate se le guardano in solitudine, sul computer. E proprio come si fa con un libro, quando un passaggio è emotivamente troppo forte da sostenere mettono in pausa, si sgranchiscono le gambe, lasciano sedimentare le sensazioni e poi tornano a guardare. O quando c’è una scena particolarmente bella, se la riguardano più volte, proprio come quando si rilegge un passo che ci ha colpito in un libro. E non sempre serve che ci siano grandi colpi di scena, come sostiene Giordano; ci sono serie come Rectify, molto poetica e mooolto lenta, dove il ritmo risulta quasi letargico.

La verità è che nei paesi anglosassoni la questione romanzi vs serie tv è già oltre. Proprio qualche giorno fa Nick Hornby, in un’intervista pubblicata da Internazionale, sostiene che «la serie tv è la forma di narrativa lunga culturalmente più rilevante del nostro tempo e lo scrittore è veramente il re». E l’anno scorso alla UCL, University College London, hanno proposto un seminario intitolato Complex TV: television drama in the twenty-first century”. Nell’università che detiene il ventunesimo posto nella graduatoria delle migliori del mondo si dava per scontato che i drammi televisivi sono ormai un esempio concreto di scrittura complessa, che proprio perché si espande nel tempo permette un approfondimento letterario prima impensabile. E la cosa più interessante che emerge è che oggi le serie tv, come i romanzi, esigono un livello di concentrazione elevato e una capacità di approfondimento che contrasta il fenomeno della soglia limitata d’attenzione. Come un tempo avveniva con i romanzi seriali di Dickens, anche in questo caso la serializzazione di qualità porta a un processo di acculturazione delle persone. Paradossalmente non solo molti buoni lettori possono diventare fan delle serie, ma può accadere anche il contrario. È un buon risultato no?

Mi sembra invece più interessante quanto suggeriva, in un articolo sul New York Times di qualche tempo fa, Sheila Heti una giovane scrittrice canadese. La Heti sostiene che, semmai, le serie tv sono fin troppo legate a una struttura narrativa classica. Per questo la sfida degli scrittori di romanzi è quella d’inventare un linguaggio più moderno che faccia da apripista verso forme d’arte innovative. Ma occorre far presto, perché anche la radio si sta muovendo: Serial ad esempio è il titolo di un programma in podcast ideato da Sarah Koenig che «regala le stesse esperienze date da HBO o Netflix, ma partendo da una storia vera e senza immagini, da godersi mentre si guida». Una produzione seriale che in breve tempo ha raggiunto il primo posto fra i podcast scaricati su ITunes. Nuove forme di narrazione premono alle porte. Perché non accoglierle con entusiasmo?

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